
Si tratta della prima riflessione sul tema dell' essere "Artigiani di Comunione", preparata per il ritiro di gennaio 2021, presso il Santuario di San Giuseppe in Spicello.
Per il documento: clicca qui
Prima riflessione per l'anno 2021 - Chiamati ad essere artigiani di comunione
(Riferimento biblico Rm 12, 1-8)
Introduzione
Introducendoci, diamo subito atto che questo ritiro di gennaio, svolto qui al santuario, è per un fatto eccezionale, causato dai noti motivi di emergenza. Negli anni trascorsi, infatti, si svolgeva presso il Santuario della Santa Casa di Loreto, in occasione del pellegrinaggio annuale dell’ISF, promosso dalla sua sede centrale.
Colgo l’occasione per ricordare che tale pellegrinaggio ha avuto inizio nella domenica della Santa Famiglia del 1974. Quella volta era avvenuto in forma privata, con la presenza del sottoscritto assieme ad un'altra famiglia. Lo scopo sarebbe stato quello di far nascere anche nelle Marche un gruppo dell’ISF, cosa che sarebbe dovuta iniziare nel ritiro da svolgersi nei primi giorni del vicino gennaio, presso l’Istituto Maestre Pie di Calcinelli.
Successivamente è divenuto ufficiale perché è entrato nel cuore delegato don Stefano Lamera, il quale lo ha proseguito, lo ha allargato e lo ha suggerito a livello nazionale. Il suo scopo sarebbe stato quello di far visita alla “Casa Madre” dell’Istituto stesso, con la fiducia di ricevere ogni anno nuovi doni di grazia.
In anni successivi ha acquistato un’altra motivazione, proveniente dal fatto della sottoscrizione del “Gesto di Comunione” tra il Santuario della Santa Casa di Loreto e questo nostro di San Giuseppe.
Tale sottoscrizione è avvenuta il 24 agosto 2002, in occasione del tradizionale pellegrinaggio annuale a questo santuario. Il documento è stato sottoscritto dai rispettivi vescovi di Loreto e di Fano, che erano presenti per presiedere la concelebrazione eucaristica.
A seguito di questo è nato nel cuore il desiderio di scambiarsi un gesto di cortesia spirituale. Se nel pellegrinaggio di agosto giungono qui i pellegrini partono dai santuari mariani, in gennaio è da qui che idealmente si parte per la Santa Casa di Loreto, come a voler ricambiare la visita.
La cosa di fatto non cambierebbe più di tanto, perché si tratta sempre di un movimento della Santa Famiglia di Nazaret il cui capo è san Giuseppe. Egli, infatti, con la sua famiglia non fa altro che trasferirsi da una casa all’altra.
Dico questo per fare riferimento alla battuta che a suo tempo ho fatto al card. Comastri, Arcivescovo di Loreto, qui presente per un ritiro, in una giornata dedicata alla famiglia. In quella occasione, presentandolo ai presenti, tra l’altro le ho detto: “Come ha modo di vedere, anche san Giuseppe si è modernizzato. A Loreto da tempo ha la sua casa abituale, qui da poco si è acquistata la seconda casa, quella di campagna, dove trova più silenzio e pace”.
Detto questo, a modo di introduzione, veniamo a questo nostro primo ritiro del 2021. Ci domandiamo: “Quale saranno i temi di riflessione dell’anno?”.
Premessa alla riflessione
Gli argomenti delle meditazioni partiranno dal tema che è stato scelto per il prossimo Capitolo generale della Società san Paolo che si svolgerà nel settembre 2021. Esso suona così: “Chiamati ad essere artigiani di comunione per annunciare profeticamente la gioia del Vangelo nella cultura della comunicazione”.
Dunque, due aspetti da considerare: “comunione” e “annuncio”.
Ogni aspetto non può esistere senza l’altro, perché l’uno richiama e genera l’altro. Ovviamente, ambedue hanno un senso molto ampio, ma noi li applicheremo soprattutto alla famiglia e al come viverli in essa.
Nella prima parte dell’anno il tema sarà incentrato sulla comunione di coppia e di famiglia. Nella seconda parte passeremo a considerare il mandato inequivocabile dell’evangelizzazione, sempre in quanto coppia e famiglia.
Da non dimenticare che se questo vale per ogni famiglia cristiana, a maggior ragione lo è per quelle famiglie i cui sposi sono consacrati a Dio con nuovo e speciale titolo, quello avvenuto con la professione dei voti, cosa questa che ci riguarda ancor più direttamente.
Purtroppo, il rischio è sempre quello che con il tempo tutto si sbiadisce, si perde la conoscenza dei valori fondanti, con la conseguenza di non vivere con coerenza la propria specifica vocazione e missione.
Perché questo non avvenga è necessario rifletterci più spesso. Per cui oggi vogliamo proprio riflettere su tale argomento.
Lo facciamo seguendo quanto a suo tempo aveva dettato don Lamera, nella cui meditazione aveva considerato l’ISF nel suo “essere”, nel suo “avere” e nel suo “dare”.
Sono tre vocaboli pieni di significato. Cosa ci dicono?
L’ISF nel suo “essere”
La prima cosa importante e necessaria è quella di comprendere quello che è l’ISF nel suo “essere”, cioè quello che è nel pensiero di Dio; si tratta di conoscere il motivo per cui Dio, per mezzo di don Alberione, lo ha voluto; in altre parole ancora, si tratta di comprendere quello che è il suo elemento costitutivo ed essenziale.
Certamente la fondazione di esso non è stata una idea cercata e voluta da don Alberione il quale, oberato da tanti altri impegni, ne avrebbe fatto a meno. Se lo ha fatto, è stato solo per obbedienza a Dio. Molto significativo, a tal proposito, quanto egli scrive rivolgendosi a Maria sul dover fondare i quattro istituti di vita consacrata nel mondo: “Io indegno vostro figlio, accetto con amore la volontà del Vostro Gesù: completare la Famiglia Paolina”.
Ora, se l’Istituto è opera di Dio, possiede valori perenni e immutabili, tali che a loro volta ne assicurano la stabilità e la validità. Questo però avviene se c’è anche la nostra corrispondenza, per cui diventa necessario, ogni tanto, verificare se siamo rimasti fedeli al progetto originario.
Come verificare?
Ecco, a tal proposito, alcuni valori da conoscere e vivere.
Primo valore. Nell’Istituto vi è una speciale grazia per la santificazione personale e reciproca fra i coniugi, con un riflesso a vantaggio di tutta la propria famiglia. Questo in forza del dono della consacrazione fatto da Dio e della risposta da noi data attraverso i voti.
Da considerare che questo non si limita solo a livello della famiglia naturale propria, ma si allarga e si verifica pure a livello di tutta la Famiglia Paolina, nel vicendevole scambio di beni spirituali e soprannaturali.
Sappiamo, infatti, che se da una parte la Santa Famiglia è un istituto secolare, dall’altra giuridicamente è “aggregato” alla Società San Paolo come opera propria. Attraverso di essa si tratta di prolungare nel mondo il carisma e l’opera di san Paolo. Gli appartenenti sono una specie di membri esterni capaci di arrivare dove i religiosi paolini non possono arrivare.
Ecco proprio in forza di questo che non ha la struttura canonica degli istituti secolari, ma ha quella di avere come supremo moderatore il Superiore generale della Società San Paolo. Se l’Istituto è stato abbastanza facilmente riconosciuto dalla Santa Sede è proprio per tale motivo di garanzia.
Secondo valore. Nell’Istituto vi è una speciale grazia per svolgere più efficacemente il ministero coniugale a vantaggio delle altre famiglie. Questo avviene per due motivi.
Il primo proviene dal fatto, come detto, di appartenere alla Famiglia Paolina e quindi eredi della speciale grazia trasmessa da san Paolo, a sua volta definito dottore del matrimonio.
Il secondo avviene per le grazie trasmesse dalla Santa Famiglia di Nazareth. Queste consistono nell’avere l’aiuto corrispondente e necessario, affinché ogni famiglia possa essere l’attualizzazione di quella di Nazaret.
Se come paolini, secondo l’espressione di don Alberione, dobbiamo essere un san Paolo vivo oggi, così come istituto dobbiamo essere la Santa Famiglia di Nazaret visibile oggi.
Quali sono queste grazie vissute dalla Santa Famiglia di Nazaret ed oggi tramesse agli sposi dell’ISF?
Sono tre, provenienti soprattutto dalla presenza in essa di Gesù che si è definito di essere la Via, la Verità e la Vita.
Queste grazie trasmesse agli sposi consistono nell’aiutarle ad essere la “Via”, cioè un “modello”, tale che anche le altre famiglie, come specchiandosi in essa, possono vedere e seguire nello stile di vita; nell’essere la “Verità”, cioè una “luce”, sia a livello umano che divino, tale che le altre famiglie, senza tanti studi, possono conoscere e comprendere quale sia il valore del matrimonio e della famiglia; nell’essere la “Vita”, cioè una “sorgente di grazia”, tale che ogni loro esempio e azione di bene possa essere trasmessa più facilmente e più largamente a vantaggio delle altre famiglie.
Quale grande dono di grazia! Da questo ne consegue che l’Istituto dovrebbe essere in grado di scrivere nella Chiesa una storia meravigliosa.
Ma nel contempo quanta responsabilità!
Si tratta, pertanto, che ogni componente ne prenda coscienza in un sostegno e collaborazione vicendevole.
Purtroppo, è proprio questo che potrebbe mancare.
Se non c’è questa consapevolezza, la Professione dei Voti, a sua volta accettata pubblicamente dalla Chiesa, rischia di rimanere solo un fatto “privato”, oppure solo una “meta” da raggiungere, ed una volta raggiunta, fermarsi, con la conseguenza che ogni operato di santificazione e di servizio apostolico, di fatto rimane “sterile”.
Qualcuno potrebbe dire che l’importante è comportarsi sempre bene, per cui cosa aggiunge in più la professione dei voti?
A questo punto interroghiamo don Alberione, volendo conoscere il suo pensiero in proposito, in consonanza con quello di Dio.
A lui piaceva mettere in evidenza la similitudine fra le piante, ad esempio nel distinguere la pianta di melo da quella del pero. È vero che sono due piante simili, per cui potremmo dire che, per il loro aspetto esterno, l’una vale l’altra. Però, di fatto il loro frutto è diverso.
Questo per dire che se da una parte è vero che ogni famiglia è simile all’altra, dall’altra è anche vero che non tutte svolgono lo stesso lavoro, per cui anche i risultati ed i frutti del loro lavoro sono diversi.
Analogamente è il tipo di frutto di una famiglia normale, altro quello di una famiglia consacrata.
Su analogo argomento, don Alberione mette in evidenza anche la differenza di rapporto che si crea con il Signore tra chi è consacrato e tra chi non lo è, sempre con la similitudine della pianta.
Dice che il non consacrato offre al Signore i frutti delle sue azioni, in quanto tutto compie per suo amore. Fa bene! Però la pianta rimane sua.
Il consacrato, invece, offre la pianta – ovviamente ivi compresi i frutti – come a voler dire: “Io non mi appartengo, sono tutto del Signore”. C’è una bella differenza!
Passiamo ora al secondo vocabolo che, come sopra detto, è quello di “avere”.
L’ISF nel suo “avere”
Come riuscire a mantenere vivo ed efficace il proprio “essere”, senza che esso si scolorisca, in modo da riuscire a svolgere bene il progetto voluto da Dio? Si tratta di mettere in pratica il secondo vocabolo, quello di “avere”.
In cosa consiste?
Portiamo ancora la similitudine della pianta. Non basta che sia messa nel campo, pur sapendo che è un melo, ma ha bisogno di attente e premurose cure perché possa portare il proprio frutto, non acerbo e amaro, ma ben saporito e gustoso. Se manca l’impegno dell’agricoltore per la continua cura di essa, si meriterebbe il rimprovero di Gesù per il talento sotterrato.
Quante famiglie, purtroppo anche consacrate, hanno sotterrato e sepolto il dono!
Ecco allora che i membri dell’Istituto, per potersi mantenere all’altezza, hanno continuamente bisogno di cercare e avere cure appropriate.
Quali sono gli aspetti di queste cure? Sono due.
Innanzitutto vi è l’aspetto intimo, quello di crescere nel portare in pienezza la grazia ricevuta. In altre parole, si tratta non di appartenere passivamente all’Istituto, ma di essere vivi e operanti, crescendo in esso. Di qui nasce il doveroso impegno di non mancare agli appuntamenti per la crescita: gli esercizi, i ritiri, gli incontri di fraternità, l’aiuto dell’accompagnamento spirituale, e quanto altro.
Poi vi è l’aspetto dinamico/apostolico, quello cioè di mettere a profitto il dono ricevuto, non solo per le altre famiglie, ma per tutta la Chiesa.
Ecco perché l’essere ha bisogno dell’avere per poter vivere e rimanere all’altezza della missione.
Come può avverarsi questo se uno, pur potendolo, non frequenta gli appuntamenti? Come può avverarsi se non prega tutti i giorni? Come può avvenire se non si prega anche insieme come coppia?
La conseguenza è che quanto più è vivo l’essere, perché continuamente alimentato dall’avere, tanto più il “dare” che ne scaturisce, consistente nel fare l’apostolato, acquista maggiore efficacia e raggiunge lo scopo.
Ed ecco che così entriamo nel terzo vocabolo, quello del “dare”.
L’ISF nel suo “dare”
Tutto ciò che è vivo ed in buona salute è anche operante. Da un consolidato detto, sappiamo che l’operare segue l’essere; la forza dell’operare, ha le sue radici di potenza, di intensità, di estensione, proprio nella qualità e nella intensità dell’essere.
L’ammalato non può operare come un sano!
Ma c’è anche la contropartita. Se è vero che l’operare segue l’essere, è altrettanto vero che l’essere è rafforzato dell’operare. Colui che non opera, mostra di essere morto, o molto vicino alla morte, o molto malato. È proprio vero che, chi si mantiene in un esercizio ginnico, conserva meglio anche la salute fisica. Altrettanto questo vale sul piano spirituale e apostolico.
Chi non fa apostolato indietreggia anche nell’avere e nell’essere.
Quale tipo di apostolato svolgere ed esercitare?
Quello che è possibile e si addice alla propria condizione, sia di salute che di concreta possibilità e capacità. Ammesse le più svariate forme e dimensioni dell’apostolato ad ognuno confacente, vi è anche quella del silenzio, ma un silenzio reso in qualche maniera operoso ed efficace.
Cosa intendiamo dire con questo tipo di “silenzio”?
La presenza di una persona piena di Dio, anche se silenziosa, non passa invano, in qualche maniera è operante. Per cui, a questo punto, è doveroso farci una domanda di verifica.
Gli altri, incontrando un membro dell’Istituto, sia pure nell’incognito, si accorgono ed esperimentano una certa presenza di grazia?
Se non si accorgono è forse perché anche noi ci stiamo adeguando alla mentalità del mondo, vivendo come vive la maggioranza della gente?
Si accorgono gli altri che siamo diversi nel modo di parlare, nel modo di pregare, nel modo di rapportarci con il Signore e con la sua provvidenza, nel modo di vestire, nel modo di comprendere e scusare gli altri, e così via?
Questo avviene quando i membri non vivono più i tre aspetti. Non solo non trasmettono agli altri, ma loro stessi vanno in crisi, interrogandosi circa la loro identità, domandandosi se veramente vale la pena rimanere nell’Istituto.
Come cominciano a pensare questo e con quali conseguenze?
Si comincia dalla diserzione nella vita di gruppo, non per veri impedimenti che si possono comprendere, ma così, perché non si vede più la ragione, quando ci lasciamo trascinare da altri impegni, anche buoni, che a noi sembrano più gratificanti.
Si perde, quindi, il desiderio e la gioia di incontrarsi con gli altri. Si perdono i vari appuntamenti, con la conseguenza di diventare sempre più critici.
Tale criticità ci porterà a dire il “perché voi”, dimenticando il “perché noi”, dimenticando con questo le personali responsabilità.