Riflessione dettata dal Rettore alle famiglie riunite in ritiro spirituale il 10 marzo 2013 presso il Santuario San Giuseppe in Spicello di San Giorgio di Pesaro
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Spesso si dice: “Io credo”, ma ci può essere un “però…”: In che modo credo? E’ vera fede?
Come analogamente si dice: “Io vedo”, ma come vedo? Se, ad esempio, non riesco a leggere, perché non ho il testo di fronte o non ho la luce sufficiente, quel mio poter vedere a che serve in concreto?
Così è della fede. Che fede sarebbe se non raggiungesse l’oggetto?
A questo fine Paolo suggerisce degli atteggiamenti: “essere rafforzati nell’uomo interiore – essere radicati – essere fondati”.
Per similitudine pensiamo ad un albero da frutto. Per potervi raccogliere frutti è necessario che esso sia fondato su un terreno dove le radici trovano la buona qualità del medesimo e dove, con l’aiuto dell’agricoltore, possa trovare il necessario nutrimento.
Così noi, per portare i frutti dello Spirito - che sono frutti di fede, di speranza e di carità - abbiamo bisogno, con l’aiuto di educatori e formatori, di essere ben fondati e radicati in Cristo e nelle sue prerogative che sono quelle di essere “Via e Verità e Vita”,
Al momento della creazione dell’uomo, Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”.
Noi, di conseguenza, siamo immersi nella Santissima Trinità; questo, sia come persone, sia come famiglie.
Come persona si usa comunemente l’attributo “Immagine”; come famiglia quello di “Icona”.
Ora ci soffermiamo a meditare su queste verità.
E’ chiaro, il mistero della Trinità è parzialmente comprensibile dalla ragione umana. Questa può comprendere “uno e tre distinti”, ma non riesce a comprendere “uno in tre” o “tre in uno”. Ecco perché, nella nostra professione di fede, la “e” diventa essenziale. Perciò diciamo: “Nel nome del Padre “e” del Figlio “e” dello Spirito Santo.
Per intuire il mistero, sia pure parzialmente, ci facciamo aiutare dalla similitudine relativa alla comunicazione: la bocca, la parola, il soffio.
La bocca formula la parola; ma se la parola non viene pronunciata e come soffiata, nulla giunge alle orecchie di chi ascolta; se il soffio non è reso udibile da una precisa parola, giunge solo un rumore od un sibilo.
Trasferiamo al nostro argomento. Dio Padre è la “Bocca”; egli pronuncia la “Parola” che è il Figlio; lo Spirito Santo è il “Soffio” che rende udibile ed efficace la Parola.
Potrebbe essere utile anche un’altra similitudine: la persona, lo specchio, la relazione.
La persona si mette davanti allo specchio: vede la propria immagine distinta da lui, ma è sempre lui; fra le due immagini c’è una relazione di conoscenza, rispetto e amore vicendevole, ma è sempre l’unico.
Dio è il “Padre”; quello nello specchio è il “Figlio”; la relazione d’amore fra loro è lo “Spirito Santo”.
Ora andiamo alle riflessioni che ci interessano più concretamente per il nostro cammino di conversione e di formazione.
Riflettiamo, anzitutto, sull’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio.
Scrive il Beato Alberione: “L’uomo è una proiezione meravigliosa della Trinità… Nella caduta di Adamo hanno concorso le tre facoltà - mente, volontà, cuore - che ebbero a subirne le conseguenze. Nella redenzione Gesù Cristo venne a ricreare l’uomo, a rifare la parte soprannaturale delle sue facoltà. Perciò Gesù Cristo è “Via e Verità e Vita”.
Appena creato, la somiglianza con Dio consisteva nell’avere, come lui, mente e volontà e cuore, in modo perfettamente sano e in perfetta sintonia con lui, da cui la felicità goduta. Ma, con il peccato, è successo lo squilibrio e la dissonanza. L’uomo da solo non sarebbe stato in grado di rimettere a posto il danno, senza l’intervento di Dio. Egli, facendosi uomo, ha voluto ridare all’uomo la possibilità del riequilibrio. Questa diventa una nuova creazione o, come dice l’Alberione, una nuova edizione.
Gesù, come “Verità”, risana la mente, di modo che non abbia più a opporsi a Dio con il voler essere indipendente. Il mezzo, che aiuta a vincere lo squilibrio, è l’obbedienza. Questa ci fa veramente liberi per poterci accostare a Dio.
Gesù, come “Via”, risana la nostra volontà che è portata ad assolutizzare i beni di questo mondo, con il rischio di considerarli più importanti di Dio. Il mezzo. che aiuta a non rimanere schiavi delle cose, è la povertà. Questa ci fa veramente liberi dalle cose.
Gesù, come “Vita”, risana il nostro cuore, che tenta sempre di sviare dal vero amore, vissuto non come dono ma come possesso. Il mezzo, che aiuta ad amare veramente, è la castità. Questa ci fa veramente liberi e felici.
Per i consacrati, chiamati a vivere le tre virtù anche in forza della professione dei voti, c’è un ulteriore maggiore aiuto per essere più somiglianti a Dio. Essi aiutano, cioè, ad essere maggiormente liberi.
Di qui la retta considerazione dei voti; non sono un “capestro”, ma un “dono” di Dio che, per suo amore a noi concesso, facilita la somiglianza a lui.
Non solo la persona è “immagine e somiglianza” di Dio, ma anche la famiglia è “icona” della Trinità.
C’è un elemento da non dimenticare: l’immagine potrebbe subire delle modifiche, l’icona no, è indelebile. Infatti, all’origine di questo tipo di immagine detta appunto “icona”, l’artista aveva come modello Dio stesso a cui, dopo aver pregato a lungo, si doveva ispirare, rispettando certe regole. Il non rispettare queste regole o il volere successivamente cambiare l’immagine, era uscire dal seminato e rovinarla per sempre.
Ed allora sorge la domanda: la nostra famiglia, in quanto è icona di Dio, è vera immagine di Lui o è uscita dal suo schema?
Uno degli attributi di Dio è la fedeltà: Dio è fedele per sempre. Nell’ambito della coppia e nel compito educativo, la fedeltà sta alla base ed è vissuta correttamente? Oppure no?
Da ricordare che la mancanza di fedeltà non è, come caso estremo e come si pensa comunemente, solo quella del tradimento, più o meno palese. La vera fedeltà sta nel continuo esercizio della comprensione, della misericordia, del perdono, della vicinanza, della tenerezza; questo non una volta per sempre, ma rinnovandola di giorno in giorno.
Questa fedeltà raggiunge il suo apice nella intimità coniugale, espressione massima dell’amore vissuto come dono di sé e non come possesso dell’altro. Anche questo atteggiamento di possesso sarebbe infedeltà che, con il tempo, potrebbe sfociare in altri atteggiamenti e conseguenze peggiori. Di qui si comprende perché molti matrimoni si sfasciano.
Nel dono di sé, che tende a far felice e contento l’altro, giocano e si accettano anche atteggiamenti di rinuncia, di attesa, di rispetto dei tempi.
Per vivere la fedeltà gioca anche un altro esercizio, quello del rispetto del duplice fine stabilito da Dio nel matrimonio: la dimensione unitiva e quella procreativa, due elementi che non possono essere disgiunti.
Ne consegue pure che, nell’eventuale concepimento, il figlio è da considerarsi dono di Dio e non proprietà dei genitori. La vita proviene da lui e non possiamo gestirla a nostro arbitrio, non ne siamo arbitri.
Per questo motivo la struttura della famiglia ed il rispetto del concepito, non possono essere modificati da nessuna autorità di questo mondo, neppure dalla somma autorità religiosa, il Papa; tantomeno l’autorità civile può legiferare per modificarne la struttura.
I Papi in questi anni lo hanno affermato con grande energia: la famiglia non è una società di origine umana, né di origine religiosa, ma è una società naturale, pensata, voluta e attuata da Dio.
Per cui è sbagliata anche l’espressione di alcuni quando dicono: “Vado a chiedere l’annullamento del matrimonio” oppure: “E’ stato annullato quel matrimonio”.
Non si annulla, non si può annullare nessun matrimonio.
Solo, dimostrando che esso è stato celebrato invalidamente, può e deve essere “dichiarato” nullo.