
"Compimento" - Parole di vera relazione
(Testo di riferimento: Gv cc 18 e 19)
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A volte da qualcuno si sente ripetere che le meditazioni dei nostri ritiri non fanno sempre riferimento pratico alla vita degli sposi e della famiglia.
Questo, è anche vero. Però, il fatto che si rifletta e che si cresca spiritualmente, indirettamente arricchisce la persona; la grazia che ognuno riceve ridonda sempre a vantaggio della famiglia e degli sposi stessi.
Anzi, proprio per crescere come coppia, è molto importante che si rifletta insieme sull’argomento, facendo in modo che ognuno sia, in qualche modo, luce per l’altro.
Dobbiamo riprendere la bella abitudine di qualche tempo addietro, in cui dialogando sottovoce, la coppia si confrontava sull’argomento del ritiro, o qui dentro o fuori in luogo adatto e appartato.
Comunque, l’importante è che nella mezzora che segue l’ascolto, si rimanga in riflessione, se non in coppia, almeno individualmente.
La riflessione di oggi si adatta al tempo quaresimale che stiamo vivendo e ci prepara a celebrare più degnamente la passione e morte del Signore Gesù.
Avendo, come testo base, i capitoli 18 e 19 di Giovanni, di mano in mano ascolteremo alcuni versetti dei medesimi che ci aiutano ad immergerci nell’argomento e nella riflessione, distribuiti in alcune scene: dall’arresto di Gesù sino al Calvario e alla sepoltura.
Il tema è: “compimento”.
La parola rivela gli ultimi atteggiamenti di Gesù che, rivolto al Padre, dirà: “Ho compiuto l’opera che mi hai dato da compiere”.
Tutti gli evangelisti raccontano la passione di Gesù. Giovanni si discosta dagli altri, nel senso che la vede come una “marcia trionfale” verso il Calvario.
Infatti, per Gesù, anche se la croce rimane un patibolo, diventa pure un trono. Da esso regna come un re e non come un condannato.
Prima scena.
Gesù, dopo l’uscita di Giuda dal cenacolo e dopo la cena pasquale, si ritira nell’orto degli ulivi a pregare.
Qualche tempo, sul luogo arriva Giuda con un manipolo di soldati romani e con un gruppo di guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei.
(Lettura di Gv 18, 5-7)
Quali riflessioni ci suggerisce?
Emerge subito un dato di fatto. Quando si tratta di condannare Gesù, sono tutti d’accordo: potere religioso e civile, giudei e pagani, buoni o meno buoni, persone da lui beneficate e suoi avversari, i semplici discepoli e anche i dodici apostoli.
Non meravigliamoci, pertanto, se anche ai nostri tempi ci troviamo in situazioni analoghe, con persone che, pur in disaccordo fra loro, si coalizzano contro il bene. Ecco, ad esempio, persone che, una volta amiche, non ti guardano più; persone beneficate che rimangono indifferenti; persone che, se da una parte compiono pratiche religiose, dall’altra augurano e fanno il male; persone che, invece di manifestare e difendere la verità, si schierano con il più influente o potente.
Però, ed inoltre, c’è da notare anche un’altra cosa: non sono quelli della turba ad arrestare Gesù, tanto è vero che indietreggiano e cadono alla sua presenza, ma è Gesù stesso che si consegna volontariamente alla turba. Infatti, alla seconda domanda, risponde: “Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano”.
Con ciò, risulta chiaro che la sua condanna e la sua morte sono un atto d’amore di sua pura scelta.
Applicato a noi: se non siamo capaci di fare delle scelte radicali, ci auguriamo di poter accettare e offrire con amore ogni situazione della vita, anche se non gradita.
Seconda e terza scena.
(Lettura di Gv 18, 20-21)
(Lettura di Gv 18, 34-36)
Accostiamo le asserzioni di Gesù alla successiva domanda di Pilato.
Gesù dice: “Io ho parlato al mondo apertamente…” e “non ho mai detto nulla di nascosto”.
Si sta rivelando che egli è la Verità in persona.
Pilato, successivamente ai brani ascoltati, chiede a Gesù, per ben due volte, se è veramente re; Gesù risponde che lo è ed è venuto per rendere testimonianza alla Verità.
Allora Pilato chiede: “Che cos’è la verità?”.
Noi sappiamo che, in altra circostanza, Gesù di sé ha detto: “Io sono la Via e la Verità e la Vita”.
Pertanto, da ciò risulta che la verità non è una cosa, ma è una persona: è Gesù Cristo.
Noi, suoi discepoli, se vogliamo essere e rimanere in tale qualifica, non possiamo non vivere nella verità.
Ma, attenzione!
La verità non è tanto dire “cose vere”, ma “essere veri”. Se siamo veri anche le parole che seguono saranno vere e non camuffate di verità.
Questo si applica pure a Gesù. Egli è Verità non tanto per quello che di vero e di santo ha detto, ma perché il Padre, nella sua persona, ci ha manifestato la grande verità: quella del suo amore infinito per noi.
Pertanto, come già detto, se vogliamo dirci cristiani e discepoli di Cristo, dobbiamo essere una verità vivente. Dobbiamo, cioè, essere coerenti nel manifestare la fede che professiamo, e nel vivere l’amore che intendiamo trasmettere.
L’essere veri e coerenti, ci otterrà la grazia per dire espressioni giuste al momento giusto, per il vero bene di chi ci sta accanto, secondo il pensiero di Dio e nel rispetto delle persone stesse: certamente non ci saranno menzogne nella nostra vita perché non abbiamo nulla da nascondere.
A questo punto vale la pena fare una digressione – cosa che non trovate nella vostra dispensa - su alcuni aspetti pratici del nostro parlare, in quelli che chiamiamo bugie, falsità, menzogne.
Molti dicono bugie giustificandosi con la scusa che non portano danno, pertanto le ritengono lecite.
Che dire in proposito? E che dire di altre situazioni analoghe in cui potremmo trovarci?
La bugia e sempre peccato: a volte solo veniale, altre volte anche mortale.
È peccato veniale se si oppone alla veracità e non porta danno, se non lievissimo; è peccato mortale se si oppone alla giustizia e alla virtù di religione.
Si oppone alla giustizia quando causa un grave danno.
Si oppone alla religione quando viene coperta da giuramento, chiamando Dio a ratificare il falso.
Poi ci sono la così detta restrizione mentale, paragonabile in qualche modo e per qualche aspetto alla bugia.
Cosa è?
La restrizione mentale è un atto interno della mente per il quale, mentre parliamo, diamo alle parole un senso, che non sarebbe il senso ovvio e che l’interlocutore non è in grado di capire, perché non può essere manifestata da circostanze esterne.
Questo comportamento si definisce: “restrizione puramente mentale”. Per esempio dico: ieri ho visto il tale, intendendo di averlo visto in fotografia.
Se, invece, il senso che diamo alle parole può essere inteso dall’interlocutore, in forza di circostanze esterne, tale comportamento si definisce: “restrizione largamente mentale”.
Per esempio: conosco un fatto, che però devo tenere segreto. Ad una persona che mi fa una domanda indiscreta, rispondo: “Non lo so”. Intende di non saperlo di conoscenza comunicabile ad altri. L’altro dovrebbe essere in grado di capire che non si tratta di una menzogna nei suoi confronti, ma che si tratta di una verità che non può essere rivelata. In forza di tale circostanza esterna quella persona dovrebbe aver potuto capire che non intendevo ingannarla, pur non rivelandogli la verità.
Che dire di questi comportamenti?
La restrizione puramente mentale non è lecita; è sempre una bugia.
La restrizione largamente mentale non solo non è proibita, ma diventa anche doverosa. Il suo scopo, infatti, non è indurre in errore, cioè far credere il falso, ma è nascondere la verità nei casi in cui questa verità non deve essere manifestata.
Pensate, in questo caso, al segreto sacramentale del confessore, ma anche alla riservatezza di coloro che esercitano una professione, o a tante notizie sapute o ricevute in confidenza. Pensate anche a tante fatti personali, da non rivelare ad altri, neppure al coniuge e ai figli, per tanti motivi riservati o di necessaria convenienza.
Poi ci sono le bugie così dette “giocose”, o “scherzose”, o “bonariamente ingannevoli”, per riderci sopra. Non c’è nulla di male, purché ben presto sia tutto risolto proprio a gioia di tutti.
Quarta scena.
Siamo sotto la croce. Avviene una cosa molto importante. Si realizza la maternità di Maria nei nostri confronti.
(Lettura di Gv 19, 25-27)
Anche la maternità di Maria ha seguito tappe progressive.
Maria ha realizzato la sua maternità nei nostri confronti, attraverso tre momenti: nell’Annunciazione; presso la Croce; nel giorno di Pentecoste.
Annunciazione. In quel momento ha concepito Gesù, ma anche la Chiesa.
Si concepisce attraverso una accoglienza. Maria ha accolto lo Spirito Santo e la sua opera.
Anche la Chiesa è opera dello Spirito Santo. Noi siamo parte della Chiesa; Maria ha accolto implicitamente ciascuno di noi.
Inoltre, se ha accolto il frutto di quest’opera che è Gesù, divenuto capo del corpo che è la Chiesa stessa, per conseguenza ha accolto pure noi, che siamo le membra di tale corpo.
Maria non è stata come alcune madri che concepiscono senza amore, per sbaglio, con accettazione forzata del figlio e, peggio, a volte anche rigettandolo.
Maria ci ha accettati con amore. Quando dirà: “Tutte le generazioni mi chiameranno beata”, pensava a noi, suoi figli, che avremmo ricambiato il suo amore.
Presso la Croce. Dopo averci concepiti ed essersi accorta della nostra presenza, ci partorì nel dolore presso la Croce, collaborando con Cristo.
Lì venimmo alla luce, simboleggiati dall’acqua e dal sangue del costato.
Appena nato il figlio è messo sulle braccia della madre. Questo gesto è compiuto ufficialmente da Gesù con l’espressione: “Donna, ecco tuo figlio”.
Giovanni rappresentava tutti noi; siamo stati messi sulle braccia di Maria.
Nel giorno di Pentecoste. Ha tenuto uniti e ha confortato gli apostoli.
Come madre nutre, sostiene, educa ciascuno di noi.
Qual’é il nostro compito?
Dobbiamo, come Giovanni, accoglierla nella nostra casa, cioè fra i tesori più preziosi. Se la devozione per gli altri santi non è strettamente necessaria, non così quella verso Maria. Il volere del Padre celeste è che essa sia mediatrice di salvezza.
Ci fermiamo. Per le altre due scene, riflettete voi personalmente come suggeritovi dalla dispensa.