
Vestire gli ignudi (riflessione del mattino)
(Testo base Gc 2, 14-17)
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Premessa
L’essere vestita, accompagna la persona dalla nascita alla morte; il bimbo nato, viene vestito; la persona fortemente ammalata, oppure inabile o anziana, ha bisogno di essere aiutata a vestirsi; la salma per la sepoltura viene vestita.
Poi ci sono le persone che vivono in estrema povertà, tanto da non avere la possibilità di acquistare l’occorrente per vestirsi adeguatamente: hanno bisogno di vestirsi.
Anche Dio, per primo, mette in pratica l’opera del vestire. Questo lo fa, sia verso le cose che di mano in mano crea, e lo farà anche con l’uomo.
Gesù nel discorso della montagna, ad un certo punto, fa riferimento a questa vestizione che Dio fa nella creazione e nel conservarla: “Osservate come crescono i gigli del campo. Vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”.
Dio, nell’opera della creazione, non fa altro che aggiungere una cosa nuova a quella che già esiste, proprio a modo di vestito, per renderla più bella.
Cito solo quello che si riferisce alla terra, come leggiamo in Genesi: “Dio chiamò l’asciutto terra. Vide che era cosa buona. E Dio disse <La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, ognuno secondo la sua specie>”.
È la vestizione della terra. Tutto, poi, è concatenato. Infatti, successivamente anche le piante, ad esempio, vengono rivestite di foglie, fiori e frutti, e così via.
Analogo gesto Dio compie verso l’uomo che, dopo il peccato, si riconosce nudo: “Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna due tuniche di pelli e li vestì”.
Applicazione generale a noi tutti
Nell’opera di misericordia del vestire, dobbiamo considerare due aspetti: quello materiale e quello spirituale.
1. Per il gesto materiale dobbiamo vedere il nostro intervento verso chi, nella povertà, è del tutto sprovvisto di vestiti e neppure ha la possibilità di vestire decorosamente.
Il profeta Isaia non esita a vedere, in questo gesto del vestire, la stessa dignità del digiuno e delle pratiche religiose: “Non consiste (il digiuno e il culto) nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire chi è nudo?”.
Il digiuno e l’astinenza, infatti, acquistano il pieno valore allorquando il risparmio di spesa che ne segue, va a vantaggio dei bisognosi.
2. Per il gesto spirituale dobbiamo vederci il richiamo alla dignità della persona. Ogni persona si ritrova nuda quando ha perduto la propria dignità.
La “nudità” di Adamo ed Eva richiama proprio questo. Si vedono nudi perché hanno perduto l’amicizia con Dio, non hanno più nulla su cui poggiare. Si sentono nudi perché con il peccato hanno perduto veramente tutto.
Pertanto, come nel primo momento Dio aveva creato l’uomo con la polvere della terra, facendolo vivente con il suo alito, così ora lo crea nuovamente vestendolo e ridonandogli la dignità perduta.
Questo tipo di nudità può colpire tutti noi, ogni volta che commettiamo il peccato, ogni volta che non ci impegniamo nella via di perfezione, ogni volta che per negligenza non compiamo i doveri del proprio stato e, nel caso nostro specifico, non compiamo quello che ci chiede l’appartenenza all’Istituto, cioè quello di poter crescere; essere, quindi, maggiormente rivestiti spiritualmente.
Chi non segue la vita dell’Istituto, si impoverisce, si sveste, rimane sempre più nudo.
Questo tipo di nudità è citato anche dall’Apocalisse, nella lettera che Giovanni invia alle sette Chiese: “All’Angelo della Chiesa che è in Laodicea scrivi <Tu dici: sono ricco, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un cieco e nudo”.
Infine, quanto mai eloquente troviamo il significato della vestizione nella parabola del padre buono e del figlio prodigo che torna a casa, dopo aver perduto tutto il patrimonio e la dignità, e quindi rimanendo nudo.
Il padre dice: “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi”.
Tutti gesti che significano la dignità riacquistata dal figlio.
In questo lato spirituale, vestire chi è nudo, può diventare un atto di vero apostolato, in quanto aiuta chi è lontano da Dio, a riavvicinarsi e a riacquistare la dignità perduta.
Applicazione mirata agli sposi.
Nel giorno del matrimonio, gli sposi si sono vestiti al meglio: tutto doveva essere bello, tutto doveva sprizzare gioia. Questo a significare l’importanza umana, morale e spirituale delle due persone, in quel momento speciale. Certamente! Un bel vestito per esprimere la bella nuova dignità: quella di essere sposi.
Consideriamo ora tre aspetti del vestirsi nell’ambito della coppia: quello a livello personale, quello dell’avere una dignità, quella di vivere nel buon umore.
1. Anzitutto c’è il vestito personale e quindi il modo di vestirsi.
Cosa è meglio: un vestito solo alla moda, un vestito che faccia ammirare solo l’esterno, o un vestito che fa bella la persona rivelando anche il di dentro?
L’opera di misericordia, pertanto, richiama la nostra attenzione anche sul modo di vestirsi. Una persona vestita con cattivo gusto, o secondo una moda esagerata, o in maniera non appropriata, apparirebbe davvero nuda.
Allora, il vestire gli ignudi in questo caso, come è da intendersi?
È provvedersi di vestiti decorosi, piacevoli, ben adatti alla persona, in una felice combinazione di colori, e che il tutto ben si addica al luogo e al momento che si sta vivendo.
Purtroppo, non sempre la moda è una saggia consigliera in ordine al bello e al comodo e, soprattutto, in ordine alla dignità della persona. Sappiamo come la moda sia schiava degli interessi di mercato!
Vestire gli ignudi, non nega alla coppia di fare insieme il giro dei negozi di abbigliamento. Questo, a parte gli acquisti o meno, deve servire soprattutto per vivere quel momento insieme, perché la cosa importante è proprio questa!
Ma il vestire gli ignudi invita, soprattutto, ad usare moderazione nell’acquisto, pensando ai poveri ed evitando di riempire gli armadi di capi superflui e, spesso, mai o quasi mai usati.
2. Poi c’è il vestito che richiama la dignità della persona.
Si è nudi quando uno dei coniugi disprezza l’altro e lo priva di ogni considerazione, della stima e della fiducia. Quante volte si sente dire: “per me, quello che pensa o dice lui o lei, non conta nulla!”.
Vestire gli ignudi richiama gli sposi a darsi vicendevolmente la massima reputazione, godendo per gli aspetti positivi dell’altro, mettendo in evidenza le sue capacità, i meriti, le cose belle che compie, i risultati che ottiene al lavoro e nella società.
Vestire gli ignudi fra gli sposi significa non calcare troppo su un eventuale errore o pasticcio combinato. Si tratta sempre di difendere il coniuge, stare comunque dalla sua parte, aiutarlo a superare un momento difficile, aiutarlo ad affrontare una situazione problematica, assicurandogli fiducia e donando sicurezza.
3. Infine il vestito del buon umore.
Dobbiamo proprio credere che è il buon umore di una persona che serve a darle bellezza, simpatia e attrattiva. È da ritenersi nudo chi si presenta con un volto senza espressione, triste, scoraggiato, depresso, deluso, oppure si esprime con atteggiamenti avviliti, senza entusiasmo, pienamente scoraggiato.
Riteniamo vestito, invece, chi mantiene il suo volto sempre al bello, però in modo naturale, senza esagerare nei cosmetici o nei rifacimenti; inoltre è vestito chi, nel suo modo di fare, sa esprimersi in modo simpatico, allegro, scherzoso, ricco di speranza.
Vestire gli ignudi, inoltre, chiama gli sposi ad essere sostegno l’un per l’altro. Questo per uscire da situazioni deprimenti e da stati d’animo angoscianti, studiando assieme iniziative adeguate quali, ad esempio, una serata da soli, una passeggiata, una visita ad amici veramente fidati.
Infine, vestire gli ignudi è un’opera di misericordia che chiama gli sposi a unire le loro forza, il loro cuore, il loro amore, perché ognuno dei due sia attento a donare quello che rende bella e piacevole la persona che ama.
Deve essere come una gara, per aiutarsi a crescere nella gioia dell’amore.
Amoris laetitia.1 (confronto del pomeriggio - estratto dal capitolo ottavo)
Accompagnare, discernere e integrare la fragilità
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Conosciamo le aspettative della nostra gente, quelle di avere subito risposte concrete su alcuni aspetti, quali, ad esempio, se i divorziati possono fare la comunione.
Di fatto non c’è una risposta facile e che, nel contempo, possa essere uguale per tutti. Si tratta di discernere le varie situazione concrete, da persona a persona.
L’argomento è trattato nel capitolo ottavo dell’Esortazione Apostolica. Quello che vi si dice, è comprensibile e convince se vengono tenuti in considerazioni anche i capitoli precedenti fra i quali, molto importante, è il quarto; esso tratta, appunto, dell’amore nel matrimonio.
In questo momento, noi che abbiamo fatto un certo cammino nella comprensione di tale amore e nel viverlo, passiamo a considerare il capitolo ottavo, il quale non trascura di fare qualche riferimento al citato capitolo quarto.
Vi troviamo una espressione importante: “A volte quello della Chiesa è un lavoro da campo”.
A tal proposito, premettiamo una analogia. Curare una persona all’ospedale, ad esempio per uno scompenso cardiaco, non significa toglierle l’essenziale per vivere, quali il respiro e il battito del cuore, anzi sta proprio lì la premura per curarlo.
Così pure, quando la Chiesa accoglie e cura un ammalato spirituale, non significa che rinnega le verità essenziali, le così dette verità “non negoziabili”; anzi, sta proprio lì il suo compito, quello appunto di curarle, aiutando a vivere quelle verità.
Questo è espresso al n.291. Dopo aver affermato che “ogni rottura del vincolo matrimoniale è contro la volontà di Dio”, subito aggiunge che la Chiesa “è consapevole della fragilità dei suoi figli”.
Ecco, pertanto, l’intervento e il pronto soccorso, ecco la funzione dell’ospedale da campo, ecco il salvare la verità ma nel contempo comprendere la situazione della persona e perciò la ricerca di ogni mezzo per curarla.
Poi sottolinea che “essi partecipano alla vita della Chiesa in modo non perfetto”.
Di conseguenza, hanno bisogno di particolare attenzione e cura, proprio per potersi perfezionare.
Il n.292 richiama la realtà del matrimonio: “Il matrimonio cristiano è il riflesso dell’amore di Cristo per la sua Chiesa”; è proprio questo amore che i coniugi devono rispecchiare.
Tale amore, sull’esempio di Cristo, si realizza “nell’unione fra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella fedeltà si appartengono fino alla morte”.
Noi sappiamo che, se uno specchio è rotto, non riflette bene l’immagine.
Ugualmente, alcune unioni matrimoniali, continua il documento, “non rispecchiano, anzi contraddicono radicalmente tale ideale; altre lo realizzano solo in modo parziale”.
Pur tuttavia, anche in tali unioni esistono dei valori da non trascurare e che sono da prendere in considerazione.
Poi, al n.293, leggiamo: “I Padri hanno considerato la situazione particolare di un matrimonio solo civile e, salve fatte le differenze, persino di una semplice convivenza in cui, quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio”.
Al n.294: “La scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti …”.
Tali situazioni, prosegue, “vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo. Si tratta di accoglierle e accompagnarle con pazienza e delicatezza”.
A questo punto richiama la pedagogia di Gesù usata nel colloquio con la Samaritana.
Il n.295 cita Giovanni Paolo II nelle espressioni che si leggono nella “Familaris consortio”: la “legge della gradualità” e la “gradualità della legge”.
Per analogia, è come a voler raggiungere una meta.
Non si può raggiungere la meta scegliendo una strada piuttosto che un’altra, per il solo fatto che ci sembra più agevole. Se è sbagliata, ci porta altrove, non ci fa raggiungere la meta che ci siamo prefissati (richiama la gradualità della legge, come se ci fossero diversi gradi della legge stessa, da poter liberamente scegliere quella che fa comodo); se invece, pur avendo scelto la giusta strada, la meta non è raggiunta subito, anzi richiede la fatica del percorso, ma se di fatto c’è un impegno costante, ne segue che ci si avvicina di mano in mano (ecco la legge della gradualità o delle diverse tappe del percorso, ma sulla giusta strada).
Successivamente, passa a discernere le situazioni dette “irregolari”, che risultano da fragilità o imperfezione della persona.
Per discernere tali situazioni, al n.296 si afferma di non sbagliare strada “perché due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare …. La strada della Chiesa è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione …. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero ….
Pertanto, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione”.
Il n.297 prosegue dicendo che “si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia <immeritata,incondizionata e gratuita>.
Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!
Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino.
Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è un qualcosa che lo separa dalla comunità”.
In questo caso è chiara la non ammissibilità alla Comunione eucaristica.
Poi il documento prosegue dicendo che questa persona “ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione.
Ma perfino per questa persona può esserci qualche maniera di partecipare alla vita della comunità: in impegni sociali, in riunioni di preghiera, o secondo quello che la sua personale iniziativa può suggerire, insieme al discernimento del Pastore”.
Pertanto, come trattare le diverse situazioni di irregolarità?
La risposta del documento è: “In ordine ad un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro, sempre possibile con la forza della Spirito".
(la prossima volta proseguiremo nelle ulteriori conseguenze)