Consolare gli afflitti     Riflessione tenuta dal rettore alle famiglie riunite in ritiro 9 ottobre 2016 presso il Santuario San Giuseppe in Spicello di San Giorgio di Pesaro.
    
     1) CONSOLARE GLI AFFLITTI
(Testo di riferimento Lc 7,11-16)
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Premessa
(Lettura di Luca, 7,11-16)
   Quale più grande consolazione Gesù poteva arrecare a quella madre vedova che, per di più, aveva perduto anche il figlio unico?
   Gli appunti che avete in mano iniziano col dire che nel passato, questa opera di misericordia, è stata incompresa e spesso trascurata.
   Per praticarla, dobbiamo imparare da Gesù, il nostro unico modello. Egli l’ha messa sempre in pratica durante la sua vita, nelle più svariate situazioni nelle quali si trovava la gente.
   Una di esse è quella dell’episodio ascoltato. Notiamo che Gesù la compie, nel contempo, con parole e gesti.
In che modo consolare
   Innanzitutto, cosa vuol dire “consolare”?
Si tratta di stare vicini a chi soffre, di essere una presenza che non svilisce la disgrazia dell’afflitto con parole banali, o falsamente rassicuranti, o illusoriamente spirituali.
   Ci vuole una presenza che, soprattutto, sia capace di ascolto.
Pertanto, nel caso che possedessimo questa capacità, occorre spogliarsi dell’illusione di avere facili tecniche di consolazione; non ne abbiamo.
   Consolare è un lavoro, è una fatica. Esige, prima di tutto, un lavorio su se stessi, un lavorio che ci aiuta ad avere e provare in sé le consolazioni che provengono dal Signore. Ce lo dice in maniera molto chiara Paolo, all’inizio della seconda lettera a Corinzi (1,3-5).
   Ecco le precise parole: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni conforto, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione, affinché possiamo consolare quelli che si trovano in qualsiasi tribolazione con quel conforto con cui siamo confortati noi stessi da Dio”.
   Solo a seguito di questa nostra esperienza, possiamo dire parole ed esprimere gesti adeguati, che restano scolpiti nella memoria di chi li ha ricevuti, come gemme preziose e rare.
   Nella Bibbia l’immagine più commovente di consolazione è quella di Dio che, in una prospettiva escatologica, asciuga le lacrime dagli occhi delle creature sofferenti ed afflitte. Lo si legge nell’Apocalisse (7,16-17).
   La esprime con queste parole: “Non avranno più né fame né sete; non li colpirà più il sole né calore alcuno, poiché l’Agnello che sta in mezzo al trono, li pascerà e li condurrà alle sorgenti d’acqua viva; e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”.
   Ora, però, una domanda.
   Quando la consolazione diventa veramente efficace?
Sarà efficace non tanto se riesce a provocare una gioia passeggera, ma ad infondere la capacità di portare su di sé le sofferenze, partecipando a quelle di Cristo.
   E’ il senso profondo di una pagina dei Fioretti francescani, più noto come l’episodio della perfetta letizia, che ha come protagonisti Francesco d’Assisi e Frate Leone.
   Vi si legge che non è perfetta letizia dare grandi esempi di santità, fare miracoli, conoscere le scienze, le scritture ed i segreti delle cose; e nemmeno convertire tutti gli infedeli. Si tratta invece di accettare pazientemente – una volta giunti a Santa Maria degli Angeli – di non essere riconosciuti, non essere accolti, anzi, di essere cacciati via in malo modo.
In altre parole, la perfetta letizia consiste nell’accettare la croce che il Signore permette nella nostra vita.
   Che cos’è, allora, la consolazione?
   La consolazione è dare un’interpretazione diversa alla realtà che ci fa soffrire; non si ferma a se stessa, ma è vista con orizzonti più ampi.
Quello che ci consola, allora, è avere dentro di noi il pensiero di Cristo sulle nostre afflizioni. Gesù Cristo ci rivela che se soffriamo è perché si rivelino in noi le opere di Dio. Ci rivela, cioè, che Dio sta facendo un’opera salvifica, utile ed umana attraverso la croce che ci mette davanti.
   Essa, pertanto, diventa il luogo di un incontro più profondo con Lui.
   Ciò premesso, l’importante quindi è non avere uno sguardo pietistico sull’afflitto.
   Questi non cerca un’altra persona che pianga su di lui, ma qualcuno che lo guardi come lo guarderebbe Cristo. Quello che ci consola e ci salva, infatti, è lo sguardo di Cristo, proprio come recita il Salmo 34,6: “Guardate a Lui e sarete raggianti e non saranno confusi i vostri volti”.
   La consolazione anticipa il giorno in cui Dio stesso tergerà le lacrime di ogni volto, come pocanzi abbiamo detto.

La metodologia di Luca
   Nel raccontare l’episodio ascoltato, Luca ci offre come una metodologia per compiere l’opera in parola.
Consolare è possibile se noi “vediamo”, cioè se ci accorgiamo di quanto accade al nostro prossimo.
È’ “vedendo” la vedova, cioè accorgendosi di lei, che Gesù, incrociando il pianto e le lacrime, ne percepisce il dolore e lo strazio provocati dal lutto, con il conseguente smarrimento, originato dal sapere che da quel momento dovrà affrontare in solitudine il resto della vita.
   Accanto al “vedere”, nasce un secondo atteggiamento, quello che scaturisce dal “non passare oltre” (noi diremmo: dal “non girarsi dall’altra parte”) nei confronti di chi abbiamo visto, ma immedesimandoci in lui.
È’ l’atteggiamento, così detto, della “compassione”, del patire insieme: «Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione».
   Successivamente l’evangelista lo esemplificherà molto bene.
   Lo farà raccontando la parabola del buon Samaritano, dove è sottolineato l’atteggiamento di chi passa oltre e di chi invece si ferma.
   Pertanto, anche “farsi vicino” (o “avvicinarsi”, “farsi prossimo”) e “toccare”, sono parte della metodologia offerta da Luca («[Gesù] si avvicinò e toccò la bara»).
Questi due verbi esprimono quella che noi chiamiamo la “comunicazione non verbale”, cioè non affidata alle parole, ma a gesti profondamente espressivi e significativi, che parlano da sé.
Sono le parole del silenzio e dell’abbraccio, dell’ascolto e del cuore.
   Esse esprimono una totale immedesimazione con il pianto e le lacrime del nostro prossimo, del nostro vicino.
È una metodologia importante, questa, perché spesso noi rischiamo di affidare la consolazione alle molte, alle troppe parole.
   Il silenzio e l’abbraccio, l’ascolto ed il cuore, rendono visibile la stessa presenza di Dio, spesso non più avvertita - per non dire rifiutata - da chi è nel pianto e nelle lacrime. Infatti e spesso, essi come delusi, si chiedono dove sia andato questo nostro Dio.
   Per questo l’incontro di Gesù con la vedova di Nain è visto da tutti come la “visita” che Dio fa al suo popolo e ad ogni sua creatura che è nel dolore.
   E quando Dio “visita”, porta sempre con sé non solo la guarigione, ma anche la salvezza.

2) SOPPORTARE PAZIENTEMENTE LE PERSONE MOLESTE
Premessa
   Quand’è che una persona è considerata molesta? Forse e solo perché disturba?
Pensiamo, per esempio, al sentimento che molti provano nei confronti degli immigrati che giungono nel nostro paese!
   Dal come è formulata l’opera di misericordia, ci si rende conto che la virtù richiamata è proprio quella della pazienza.
Infatti dice di sopportare “pazientemente”.
   Non è facile esercitare la pazienza, per tanti motivi. Ad ostacolarla, soprattutto oggi, ci stanno la fretta, i molti impegni che si susseguono, gli orari che condizionano i ritmi e le relazioni della vita quotidiana. Sono gli ostacoli più frequenti che incontra questa opera di misericordia.
   Nel clima frenetico delle nostre giornate diventa sempre più difficile mantenere la padronanza di noi stessi e sopportare la presenza del nostro prossimo, soprattutto quando si manifestano i loro limiti e i loro difetti.
Diventa anche difficile applicarla nelle stesse relazioni familiari.
   Quanta pazienza con il marito o con la moglie, con i figli; per tanti motivi, compreso quello, ad esempio, che a tavola in continuazione digitano messaggini; e quanta ancora con coloro che non conoscono una pausa nel guardare la televisione! (A meno che non siamo anche noi fra questi!).
   A tal proposito, ai nostri giorni, anche la rete si è messa a complicare la nostra sopportazione. In internet, ad esempio, bisogna sopportare presenze inopportune, fastidiose, addirittura insopportabili. Non bastavano i parenti, i vicini di casa, i colleghi di lavoro!
   Attenzione, però, ad una cosa. Quella di non scambiare la pazienza con la rassegnazione. Nella vita, infatti, si riesce ad accettare convenientemente le situazioni negative, in forza di un motivo più alto; ma guai a rassegnarsi a modo di indolenza.
   Infatti, la pazienza non è solo quella virtù che ci rende capaci di sopportare, opponendoci all’irascibilità e alla rabbia, quanto quella di aiutarci ad accettare il presente in attesa di un futuro migliore.
Pertanto, paziente è colui che non solo non si lascia vincere dal fastidio o dall’irritazione, ma sceglie saggiamente come reagire caso per caso, nella speranza di raggiungere un’altra meta, che sia migliore.
D’altra parte, le persone così dette moleste, non potrebbero anche essere un dono per la nostra crescita spirituale?
Nella preghiera di don Alberione, rivolta a san Paolo, leggiamo che la pazienza assume anche tale valenza.
Ecco il testo: O glorioso San Paolo, che da persecutore del nome cristiano, diventasti un apostolo ardentissimo per zelo, e che, per far conoscere il salvatore Gesù fino agli estremi confini del mondo, soffristi carcere, flagellazioni, lapidazioni, naufragi e persecuzioni di ogni genere, e in ultimo versasti fino all’ultima goccia il tuo sangue, ottienici di accogliere, come favori della divina misericordia, le infermità, le tribolazioni e le disgrazie della vita presente, affinché le vicissitudini di questo nostro esilio non ci raffreddino nel servizio di Dio, ma ci rendano sempre più fedeli e fervorosi”.

A imitazione della pazienza di Dio
   A tal proposito, chi più paziente di Dio?
   Dio per primo esercita la pazienza nei nostri confronti. La sua proviene da un amore tale che tutto accetta. Lo fa per attendere i tempi dell’uomo, il tempo della sua conversione.
È’ Pietro che ce lo richiama: “Il Signore non ritarda nell’adempiere la promessa, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti giungano a conversione” (2Pt 3,15).                                                                                                                                                                                                                                                                       
   Per il cristiano, la pazienza è dono ed è frutto dello Spirito Santo. È’ lui che ci aiuta a perseverare nelle prove, ad essere tolleranti nei confronti di chi ci procura fastidi, a perdonare coloro che si mettono contro, per ostacolarci su diversi aspetti.
   Da non dimenticare, inoltre, che la sopportazione paziente dell’altro va di pari passo con la pazienza verso se stessi e le proprie incongruità.
   Oggi, purtroppo, la pazienza ha perso molto fascino; i tempi frettolosi spingono all’impazienza, al volere “tutto e subito”, ad un possesso che non lascia spazio all’attesa.

Il decalogo del tempo e della pazienza
   Dio allora ci propone un suo “decalogo del tempo”, che riporta l’equilibrio e l’armonia sia tra noi, che vorremmo essere i soli gestori del nostro tempo, sia con il prossimo che, con le sue esigenze e la sua presenza, chiede di diventare il nostro “tu”.
   Lo esprime il Qoelet: «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire… c’è un tempo per demolire e un tempo per costruire… c’è un tempo per piangere e un tempo per ridere… un tempo per fare lutto e un tempo per danzare… un tempo per tacere e un tempo per parlare… un tempo per amare e un tempo per odiare» (Qoèlet 3,1-8).
   A questo “decalogo del tempo”, che ci fa condividere con pazienza il ritmo della nostra vita con il ritmo del nostro prossimo molesto, si può aggiungere anche il “decalogo della pazienza”, che l’apostolo Paolo ha consegnato ai cristiani di Colossi: «Rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità [=pazienza], sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3,12-13).
   Nella lettera ai Galati (6,2) l’apostolo sintetizza questo decalogo in sole sette parole: «Portate i pesi gli uni degli altri».
Da ricordare che il numero “sette” nella Bibbia è il numero della perfezione.
   Che il verbo “portare” è il verbo della pazienza, che ci rende capaci di accorgerci del nostro prossimo e di farci carico della sua presenza, gradita o molesta che essa sia.