L’ENCICLICA NON SCRITTA di PAPA BENEDETTO
(Aldo Maria Valli)
Si sente dire in giro, anche da qualcuno nelle parrocchie, tra i fedeli: “Ma il Papa non doveva, non poteva. Non si scende dalla croce”.
È forse il commento più avvilente, specie se fatto da credenti. Il Papa non sta scendendo dalla croce: ci sta salendo. Sta facendo l’esperienza dell’abbassamento, della spogliazione di sé.
L’esperienza più radicale di abbandono nelle braccia del Signore.
Chissà quale tumulto di emozioni e di pensieri nella sua anima. Poi la scelta. Una scelta nata
dalla preghiera, dall’ascolto di Dio, dal confronto con lui.
Si dice: “Il Papa stava scrivendo un’enciclica sulla fede, ma non l’avremo”. Non è vero.
L’enciclica sulla fede l’ha scritta: sta in questa sua sofferta decisione di farsi da parte agli occhi del
mondo per mettersi sotto uno sguardo che conta infinitamente di più. È un’enciclica silenziosa, ma
non meno efficace. E, non a caso, come sempre sono i più semplici a comprenderla.
Mentre i dotti fanno scorrere fiumi di parole per indagare le ragioni occulte delle dimissioni, gli
umili hanno già capito: il Papa sta facendo l’esperienza di Gesù nell’orto del Getsemani: «Ora
l’anima mia è turbata». E dal turbamento nasce l’abbandono nelle braccia del Padre. Si potrebbe
dire, e tutti lo diciamo prima o dopo, «salvami da quest’ora». Ma la fede sta nell’abbandono, nello
spogliarsi di sé.
L’enciclica silenziosa di Benedetto ci parla della vita debole, della vita turbata. Ci parla di
quella vita che normalmente non vogliamo vedere. Ci parla della morte e della mortalità. E noi che
viviamo nella società dell’immagine, noi che siamo abituati a valutare tutto e tutti in base
all’apparenza e alla categoria dell’efficienza, restiamo attoniti e duri d’orecchi di fronte a chi ci
propone il nascondimento e il silenzio.
Il Papa ha detto di aver ascoltato la coscienza. È la lezione del suo maestro Newman. Ma anche
per ascoltare la coscienza bisogna in un certo senso spogliarsi di sé, dell’ideologia del fare e
dell’apparire.
Noi oscilliamo normalmente tra l’esaltazione del sé, fino al soggettivismo estremo, e la
depressione più cupa che nasce dalla sensazione del vuoto. Ma lo svuotamento interiore è un’altra
cosa. E anche di questo il Papa ci sta parlando con la sua enciclica silenziosa. E chi l’avrebbe mai
detto che il teologo Ratzinger, il professor Ratzinger, ci avrebbe lasciato in consegna, come ultima
lezione, un messaggio così? L’ammissione del turbamento. La fine del proprio magistero non nel
trionfo ma nel nascondimento. Altro che scendere dalla croce. «In quel momento attirerò tutti a
me». E lui si sta lasciando attirare.
O io o Dio, ha detto il Papa nell’Angelus di domenica 17 febbraio. Alla fine il problema sta
tutto lì. L’io tende inesorabilmente a prevalere, in mille forme diverse. In certi casi, addirittura, in
forme ammantate di profonda religiosità. Lasciare spazio a Dio, lasciare che sia lui ad agire in noi,
lasciare a lui l’ultima parola, è maledettamente difficile.
Di fronte al dilemma “o io o Dio” il Papa ha scelto. Ha usato la sua razionalità, certamente. Ma
l’ha fatto, come ha sempre chiesto nel corso del pontificato, con una razionalità non mutilata, non
ridotta all’empirismo, ma aperta alla trascendenza.
C’è, in questa sua ultima enciclica non scritta, moltissimo su cui vale la pena di meditare.
Cattolici e non cattolici, credenti e non credenti. Possibilmente nel silenzio.
Ed altri due articoli
Il magistero di Benedetto XVI: la fecondità di un'enciclica vivente sulla fede
Umiltà, acume intellettuale e perfetta carità apostolica
Di Fabio Piemonte
ROMA, 05 Marzo 2013 (Zenit.org) - Si presentò come "un umile lavoratore nella vigna del Signore" il cardinale Joseph Ratzinger, quando in quel pomeriggio del 19 aprile 2005 si affacciò per la prima volta dai sacri palazzi in veste di nuovo pontefice. L´umiltà, madre di tutte le virtù cristiane, lo ha accompagnato sino alla fine del suo ministero petrino, fino a quelle parole difficili e amare pronunciate lo scorso 11 febbraio nelle quali, a causa della mancanza del vigore del corpo e dello spirito, riconosceva la propria incapacità di amministrare al meglio l´ufficio affidatogli. Da professore di teologia dogmatica e fondamentale nelle più prestigiose università tedesche, da Frisinga, a Bonn, a Ratisbona, Joseph Ratzinger partecipò ai lavori del Concilio Vaticano II come consulente teologico dell´Arcivescovo di Colonia Joseph Frings, divenne Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Pontificia Commissione Teologica Internazionale e Decano del Collegio Cardinalizio.
Eppure nonostante questi titoli altisonanti, egli ha saputo incarnare profondamente quell´umiltà cristiana, che è innanzitutto consapevolezza della pochezza dei propri mezzi, delle proprie fragilità e nel contempo coscienza della grandezza e della misericordia del Creatore. Alla misericordia di Cristo si appellò infatti espressamente quando denunciò la sporcizia presente nella Chiesa nella nona meditazione della Via Crucis del 2005, quando l´allora cardinale evidenziò in particolare la superbia e la autosufficienza di tanti sacerdoti, che dovrebbero invece appartenere soltanto a Cristo.
Una meditazione provvidenziale e profetica che avrebbe attuato egli stesso in prima persona una volta divenuto Papa, facendo pulizia nell´episcopato al punto tale da rimuovere due o tre vescovi al mese per condotta difforme dal Vangelo. Un´intelligenza finissima, quella di Benedetto XVI, che sin dall´Omelia Pro Eligendo Romano Pontefice ha saputo individuare nel relativismo, incapace di riconoscere nulla di vero, assoluto e definitivo, il male più grave di questo secolo. La sua penna ha prodotto tantissimo anche negli anni del suo pontificato, dai tre splendidi volumi su Gesù di Nazareth, sulla sua personale ricerca del volto di Cristo, alle encicliche sulla carità e la speranza fino a quella sulla fede, che avrebbe voluto scrivere su carta e che invece ha scritto con la propria vita.
Il suo pontificato dall´inizio alla fine è stato infatti, come qualcuno ha autorevolmente detto, un´enciclica vivente, un grande atto di fede, di fiducia in quel Padre buono che invita ciascuno a collaborare con i propri talenti all´edificazione del Regno. Benedetto XVI lo sapeva bene e lo ha ribadito: "La Chiesa non è mia, non è nostra, ma di Cristo!". Con la sua missione apostolica, prefigurata già dal nome assunto in memoria di San Benedetto, ha annunciato e testimoniato il Vangelo in un mondo ostile alla verità, attingendo perennemente alle radici dell´Europa cristiana.
Dai viaggi in diversi Paesi agli incontri con le autorità politiche, dalle catechesi dedicate ai Padri e ai Dottori della Chiesa all´indizione dell´Anno Paolino, dell´Anno Sacerdotale fino a quello della Fede, egli ha saputo riscoprire la linfa vitale del cristianesimo delle origini per comunicarla all´uomo contemporaneo.
Benedetto XVI non ha abbandonato la Croce di Cristo, ma l´ha abbracciata sin dall´inizio del suo pontificato da vero "alter Christus". Non è scappato dinanzi agli insulti, quando prima è stato simpaticamente apostrofato "pastore tedesco" e poi con epiteti decisamente più irriverenti quali nazista, omofobo e addirittura pedofilo. Al centro della bufera mediatica per gli scandali dei preti pedofili e dello IOR, egli ha saputo mostrare anche il volto di una Chiesa sofferente e bisognosa di conversione.
Da buon pastore ha chiesto perdono personalmente alle vittime degli abusi, ha tuonato contro il carrierismo dei vescovi, ma ha anche concesso mirabilmente la grazia al maggiordomo Paolo Gabriele, ritrovato a frugargli le carte private. Servo dei servi di Dio, non si è perso d´animo lungo il cammino, ma attingendo a piene mani all´universalismo della ragione, alla fonte della Rivelazione e della sacra liturgia, ripristinata anche nel rito antico, egli ha così illuminato con le sue riflessioni sui principi non negoziabili e sul bene comune, non soltanto i laici e i religiosi, ma anche il mondo dell´economia e della politica.
Questo è stato ed è Benedetto XVI, il Papa ora emerito, un pellegrino come tutti gli altri, come si è autodefinito nel commiato finale a Castelgandolfo, che ha saputo conquistare a Cristo il cuore di tanti fedeli, soprattutto giovani, che hanno avuto modo di apprendere tanto dalla sua umiltà, dal suo acume intellettuale e dalla sua carità. Nella fiducia che il nuovo pontefice recepisca la fecondità del suo magistero, è doveroso rendere grazie a Dio per averlo donato alla sua Chiesa come timoniere della barca di Pietro in tempi così burrascosi.
Salvati dalla Speranza cristiana
In quest'epoca incerta la rilettura della "Spe Salvi" di Benedetto XVI accende una luce nel buio
Di Padre Piero Gheddo, PIME
ROMA, 05 Marzo 2013 (Zenit.org) - In questi giorni oscuri e tormentati sto rileggendo e meditando l´enciclica del nostro amato padre e Papa Benedetto Spe salvi (2007), per ritrovare anch´io, prete da 60 anni, la forza e la gioia della speranza cristiana.
Sì, perché noi italiani, con tutte le sofferenze, i crimini, i fallimenti, le povertà che vediamo attorno a noi, manchiamo di speranza. Siamo non solo preoccupati ma angosciati, pessimisti, a volte disperati o quasi. I nostri discorsi sono volti al peggio, i nostri giornali e telegiornali pare che non diano alcuna speranza di poter vedere la fine dei molti ingorghi di urgenze ed emergenze il cui la nostra cara Patria è precipitata.
E allora, ricorriamo ad una delle tre encicliche di Papa Benedetto che tratta proprio della Speranza. Il testo latino dell´enciclica inizia con queste parole: "Spe salvi facti sumus" (Nella speranza siamo stati salvati) e si riferisce alla prima enciclica Deus Caritas est, Dio è Amore, Dio ci ha creati e ci ama sempre, anche nella situazione drammatica in cui ci troviamo. Spe salvi tratta il tema che la fede dà la speranza della Vita eterna con Dio, ma ci conforta e sostiene anche nella vita terrena in questo mondo. In altre parole: senza la speranza che Dio, che è Amore, dà all´uomo, l´uomo stesso non può vivere bene, perché, come scrive il Papa: "Solo quando il futuro è realtà positiva, diventa vivibile anche il presente... Chi ha speranza vive diversamente, gli è donata una vita nuova" (n. 2).
Il cristianesimo non è solo comunicazione della "Buona Notizia", ma infusione della forza della Fede e della Speranza cristiana, che non è "in qualcosa", ma "in Qualcuno". E Papa Benedetto, per concretizzare queste parole, porta l´esempio del nostro Salvatore. Nel mondo in cui viveva Gesù vigeva la schiavitù. Le persone venivano comperate e vendute al mercato degli schiavi ed erano del tutto nelle mani dei loro padroni. Situazioni orrende, spaventose, certo molto peggiori della nostra. "Gesù Cristo - scrive Benedetto XVI - non era Spartaco o Barabba, non era un combattente per una liberazione politica". Anzi "è morto Egli stesso in Croce"; ma ci ha condotti all´"incontro con il Dio vivente e così l´incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo... Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo cambiava la società dal di dentro" (n. 4).
L´enciclica cita anche l´esempio più attuale di Giuseppina Bakhita, nata nel 1869 nel Darfur, in Sudan. "All´età di nove anni venne rapita da trafficanti di schiavi e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. L´ultima volta era al servizio della madre e della moglie di un generale e ogni giorno veniva fustigata a sangue, per tutta la vita le rimasero sul corpo 144 cicatrici" (Spe Salvi, n°3). Nel 1882 è comperata dal console italiano Callisto Legnani. Aveva sempre avuto "padroni che la maltrattavano e la disprezzavano o, nel migliore dei casi, la consideravano una schiava utile. Ora però sente dire che esiste un Padrone al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i Signori, e che questo Signore è buono, è la bontà in persona e che ama anche lei. Anche lei è amata, e proprio dal Padrone supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi".
Così Bakhita scopre la Speranza cristiana e quando Legnani torna in Italia, la ragazzina gli chiede di portare anche lei nel suo paese. Così arriva a Venezia ed è affidata alle Suore Canossiane, che la curano, le vogliono bene e la educano nella Fede cristiana. Battezzata nel 1890, diventa suora Canossiana nel 1896. muore a Schio (Vicenza) l´8 febbraio 1947, dopo una lunga e dolorosa malattia. È canonizzata nel 2000 da Giovanni Paolo II.
Benedetto XVI conclude che Bakhita, "cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione. La liberazione che aveva ricevuto mediante l´incontro con il Dio di Gesù Cristo, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile. La speranza che era nata in lei e l´aveva redenta, non poteva tenerla per sé questa speranza, doveva raggiungere molti, raggiungere tutti". Speriamo, e preghiamo, che raggiunga anche tutti noi italiani e ci ridoni il sorriso e la Speranza di un futuro migliore. Per noi uomini è difficile, ma nulla è impossibile a Dio.