Testi liturgici: Is 50,4-7; Sl 21; Fil 2,6-11; Mt 26, 14-27,66
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A tutti è certamente capitato di avere delusioni nella vita, anche più volte, per cui, ad un certo punto, non sappiamo più di chi poterci fidare.
Eppure uno rimane sempre: è il Signore. È l’unico che non ci delude, anche se spesso potrebbe sembrare di no, per il fatto che non ci risparmia le prove nella nostra vita.
Anche a Gesù ha avuto la stessa sorte.
Lo abbiamo potuto costatare dall’ascolto del racconto della sua passione. Gesù ha dovuto subire un continuo contrasto tra luce e tenebre, tra esaltazione e umiliazioni da parte degli uomini, tra l’intimo suo rapporto con il Padre e l’apparente abbandono del Padre stesso.
Accenno alcuni di questi passaggi.
La folla, che lo aveva acclamato e osannato mentre entrava a Gerusalemme, a breve distanza grida: “Sia crocifisso! Sia crocifisso!”.
Giuda, che aveva ricevuto un incarico di fiducia nella comunità degli apostoli, ad un tratto diventa il traditore.
Pietro, Giacomo e Giovanni, i quali nel monte della trasfigurazione avevano proposto di fare tre tende, ora non sono capaci di vigilare un’ora sola con Gesù.
Pietro, che aveva asserito: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”, non mantiene la parola e poco dopo lo rinnega.
Sotto la croce tutti i discepoli, che lo avevano seguito per tre anni, sono spariti, ad eccezione di Giovanni.
Perfino il Padre sembra che lo abbia abbandonato, come sembrerebbe dal grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, anche se di fatto stava recitando il salmo. No! Gesù continua a mantenere la parola data nell’orto degli ulivi: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”.
Questa esperienza di Gesù è stata prefigurata dal personaggio di cui alla prima lettura, il quale in mezzo ad ogni tipo di prova, analoghe a quelle di Gesù, ha detto: “Il Signore Dio mi assiste, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso.
È quello che ognuno di noi deve imparare a dire e a vivere in mezzo alle prove e alle sofferenze della vita perché, come ho detto all’inizio, solo il Signore è colui che non ci delude mai, anche se a volte potrebbe sembrare di no.
Signore, ci mettiamo nelle tue mani!
(Di seguito omelia del Giovedì Santo)
La celebrazione del triduo pasquale non è costituito solo da una serie di celebrazioni da attuare, ma innanzitutto da una esperienza da vivere. Essa sta al culmine di tutta la quaresima.
A livello celebrativo inizia con questa messa della cena del Signore, si conclude con la messa della veglia pasquale.
Per sottolineare questa verità, la messa di oggi non termina con il consueto saluto e congedo finale, ma nel silenzio; l’azione liturgica di domani non comincia con il consueto segno di croce e con il saluto, termina ancora nel silenzio e senza saluto; infine anche la solenne veglia comincia ancora nel silenzio, termina con il consueto saluto finale che è quanto mai gioioso perché è accompagnato dall’alleluia.
È molto importante, per tale circostanza, che tutte le comunità si interroghino sul loro modo, non solo di celebrare, ma anche di vivere la messa, guardando a come sanno intessere i rapporti reciproci. Per questo motivo sono chiamati ad essere presenti tutti i ministeri presenti in parrocchia (accoliti, lettori, ministri della comunione, catechisti, animatori del canto, ecc.) ed anche tutte le realtà parrocchiali, perché facciano una verifica sullo svolgimento del proprio mandato, sul vivere lo spirito associativo e sulla collaborazione reciproca.
Capite, allora, perché per tale circostanza si esorta caldamente che siano abolite tutte le celebrazioni nelle altre chiese e cappelle che sono presenti nel territorio parrocchiale.
Torniamo, ora, alla celebrazione che stiamo svolgendo confrontandoci sulla Parola che abbiamo ascoltato.
Nella prima lettura colpisce la volontà di fare di questo rito un evento perenne, che tutte le generazioni dovranno perpetuare, trasmettendolo di padre in figlio.
Il motivo di tale richiesta di Dio, il quale dice: “E’ la Pasqua del Signora”, cioè il suo passaggio per fare giustizia, rappresenta, per la storia del popolo eletto, una svolta epocale: questo rito deve ricordare per i secoli che essi non sono più schiavi, ma liberi e con una nuova dignità.
Anche per noi cristiani la Pasqua ha lo stesso significato: ci ricorda che prima eravamo schiavi del peccato, ma grazie al sangue del vero agnello, siamo stati liberati e abbiamo ricevuto una nuova dignità.
È un giorno da vivere con particolare gratitudine: l’Eucaristia è il segno di un amore eterno che libera e salva ancora.
Cosa è necessario da parte nostra?
Imitare l’amore gratuito di Gesù che si è donato senza riserve e senza condizioni. Ce lo insegna attraverso il gesto della lavanda dei piedi: “Come ho fatto io, così fate anche voi”.
Pertanto, il segreto della vita cristiana che di conseguenza diventa sorgente di felicità, consiste nel servire.
Servire significa rendersi disponibili a dare qualcosa di noi stessi – tempo, ascolto, accoglienza – senza attendere assolutamente nulla in cambio. Solo facendo così, la nostra vita miracolosamente si trasforma.
Ed è così che, come quella di Gesù, anche la nostra diviene una vita eucaristica, cioè di dono e di ringraziamento.
Sac. Cesare Ferri rettore Santuario San Giuseppe in Spicello