Testi liturgici: Es 17,3-7; Sl 94; Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42Per il documento: clicca qui
Questa terza domenica di quaresima è nel segno e nell’argomento dell’acqua.
Lo è nella lamentela fatta dal popolo di Israele contro Mosè, ma che di fatto era contro il Signore: “Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto per farci morire di sete?”.
Lo è pure, in forma metaforica, nella lettera ai Romani in cui Paolo afferma: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo”.
Lo è nella domanda che Gesù, stanco del viaggio, pone alla Samaritana: “Dammi da bere”.
Riflettiamo sui tre testi.
Prima lettura. Anche noi, come gli Israeliti, a volte ce la prendiamo con il Signore perché non ci accontenta su certi aspetti, perché ci abbandona; corriamo facilmente il rischio di dimenticare tutto quello che sinora ha fatto per noi.
Anche gli Israeliti si erano dimenticati degli avvenimenti straordinari e prodigiosi di cui erano stati beneficati e, più precisamente, quello della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, quello dell’attraversamento del Mar Rosso, quello della manna nel deserto.
Se sino ad allora il Signore era stato in mezzo a loro ed era intervenuto a loro favore, come mai ora non si fidano più di lui?
Anche noi dobbiamo imparare ad affrontare le difficoltà che incontriamo nella vita, facendo memoria di quei momenti in cui abbiamo potuto esperimentare la presenza e l’aiuto del Signore.
Solo così sarà superata ogni forma di sfiducia e disperazione, e riusciremo a vivere nella serenità e nella pace.
Seconda lettura. L’espressione con la quale è descritto l’amore di Dio, richiama l’acqua del nostro battesimo, attraverso la quale siamo divenuti suoi figli, e quindi riempiti del suo amore.
Cosa può esservi di più grande e consolante?
Purtroppo, spesso ci dimentichiamo anche di questo, soprattutto vivendo non in conformità alle esigenze del battesimo stesso e, di fatto come si suol dire, diventando cristiani all’acqua di rose.
La terza lettura cosa ci richiama?
Richiama la nostra quotidiana sete spirituale, la necessità di essere dissetati dalla parola di verità di Dio e del suo inestinguibile amore.
Ad un certo punto del racconto è stata letta questa espressione: “La donna lasciò la sua anfora e andò in città”.
Noi siamo capaci di lasciare la nostra anfora?
L’anfora è simbolo di quello che “apparentemente” è importante, ma che in realtà ha un valore molto relativo di fronte a Dio.
Tutti ne abbiamo una, o più di una!
Qual è la nostra anfora interiore, quella che ci pesa, cioè quella che di fatto ci allontana da Dio?
Quante volte ci lasciamo condizionare da essa, tanto da non avere mai tempo da dedicare a Dio!
È un acqua che non disseta, che non ci lascia contenti e sereni. Quando siamo lontani da Dio, pur non volendolo ammettere, non siamo soddisfatti.
Abbiamo bisogno di accogliere l’anfora che ci offre Gesù. È quella che si ottiene ascoltando la parola di Dio, che ci porta a pregare, a fare la sua volontà, a vivere in grazia, a non conformarci alla mentalità del mondo; in una parola è convertirci seriamente.
Solo questo ci riempie di gioia, una gioia che viene dal di dentro e che, a sua volta, non possiamo tenere per noi, ma ci spinge a raccontare ad altri, con le parole e con la vita, le meraviglie che compie il Signore.
Dovremmo imitare la donna che diceva alla gente: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto”.
Ripeto, noi dovremmo essere capaci di dire a parole e mostrare con la vita che è veramente bello stare con il Signore.
Sac. Cesare Ferri rettore Santuario San Giuseppe in Spicello