Buon pastore
Testi liturgici: At 4,8-12; I Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

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“Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”.
Non sono parole consolanti? Essere figli di Dio!
Ma, ci domandiamo, perché e come è avvenuta questa figliolanza?

Perché c’è stata la Pasqua ed è quello che ci ha detto il Vangelo.

Al centro di esso, infatti, è sottolineato tale messaggio pasquale, che consiste nella vita di Gesù donata per amore.

Ebbene, per esprimere questo amore, Gesù usa l’immagine di colui che custodisce le pecore: gli ascoltatori capivano bene, perché per loro era il mestiere prevalente.

Il custode delle pecore potrebbe essere un garzone, un dipendente, un mercenario; oppure potrebbe essere il proprietario stesso, che non solo è custode, ma è “pastore” nel vero senso della parola, cioè colui che è talmente buono, bello e generoso, che di meglio non può esserci: “Io sono il buon pastore”.

Dove sta la differenza tra il buon pastore ed il semplice custode o mercenario?

Il mercenario lo fa per interesse, e, nel contempo, cerca di evitare il rischio di mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella delle pecore.

Al vero pastore, invece, non interessa tanto la propria vita. Sarebbe disposto anche a perderla, pur di salvare quella delle pecore: è il vero amore per l’altro.

Non solo, ma il pastore buono esercita una cura continua e amorosa.

È colui che guida il gregge, che provvede perché rimanga unito, che lo difende dai pericoli, che ama ogni pecorella senza fare preferenza alcuna, è colui che è disposto a tutto per il loro bene.

Ogni cristiano è chiamato a vivere nella stessa logica, a fare della propria vita un dono d’amore. Guai a ridurla ad una corsa frenetica, nella ricerca del proprio interesse e tornaconto.

Tante volte la bruttezza della vita, di cui ci lamentiamo, consiste proprio nella nostra incapacità di andare oltre a noi stessi e al nostro orizzonte di vita. La conseguenza di tutto questo, che produce chiusura e ripiegamento su sé stessi, non può avere altro esito che tristezza e depressione.

Questo è il rischio che tutti possono correre. È quello, anche, dei buoni cristiani che soffrono e si lamentano della indifferenza religiosa, della diminuzione della gente che va in chiesa, dei figli che vanno fuori strada, e così via.

Ma non solo. Si potrebbero lamentare perché anche fra i praticanti pochi fanno un vero cammino di fede, pochi si impegnano nella collaborazione pastorale in parrocchia.

Del resto, questo è riconosciuto anche da Gesù: “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare”.

Dobbiamo, invece, essere convinti che quando ci comportiamo bene, la nostra azione va a vantaggio di tutti.

Pure questa è l’esperienza di Gesù. Egli ha sentito la fatica di essere solo, ma non ha accusato gli altri di averlo lasciato solo, perché era consapevole di ciò che aveva scelto: donare la vita per gli altri.

L’obiettivo della sua vita non è mai stato quello di costruire un unico recinto entro il quale tutti dovevano entrare, ma di costruire un unico gregge, i cui confini sono molto larghi e di cui lui rimane sempre l’unico pastore.

A questo punto, allora, qual è il messaggio evangelico?

Si tratta di vivere la propria vita e la propria missione aperta a tutti, non perché si deve e si può arrivare a tutti – cosa impossibile – ma perché si è guidati dalla certezza che ciò che si fa a vantaggio di alcuni, in realtà ha dei confini molto più grandi: va a vantaggio di tutti.

E allora di cosa lamentarsi?

Sac. Cesare Ferri Rettore Santuario San Giuseppe in Spicello