Testi liturgici: 2Mc 7,1-2.9,14; Sl 16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38
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Spesso leggiamo nel vangelo che i nemici di Gesù pongono a lui delle domande per coglierlo in fallo, altre volte, invece, intavolano con lui accese discussioni.
Ecco, ad esempio, quella di oggi.
È una disputa con i sadducei, cioè con la massima autorità religiosa e politica del popolo ebraico dell’epoca.
Si sviluppa intorno alla controversia sulla possibilità della risurrezione dai morti.
La storia paradossale che essi inventano dei sette fratelli che muoiono uno dopo l’altro dopo aver sposato, sempre l’uno dopo l’altro, la stessa moglie e senza che nessuno abbia lasciato figli e quindi senza una successione, ha un aspetto molto ridicolo, almeno per noi oggi. Ma non per loro.
Per i sadducei, infatti, l’idea stessa di risurrezione entrava in conflitto con altri convincimenti religiosi che essi avevano. Vi era, infatti, una legge che obbligava il fratello più giovane a dare discendenza al fratello morto, sposandone la vedova e garantendo così la conservazione dell’eredità all’interno della famiglia di origine.
Capite, allora, il grosso problema dei sadducei: se uno risorgesse, per quella donna, quale dei sette fratelli sarebbe la vera moglie?
Veniamo a noi.
Non potremmo forse anche noi, se non abbiamo idee chiare, porre domande analoghe?
Se Gesù fosse visibilmente presente in mezzo noi, quali domande sofisticate potremmo porgergli?
Eccone alcune.
Con quale corpo risorgeremo? A quale età della vita, di quale peso, con quali fattezze? Se un corpo prevede necessariamente uno spazio, ed ammesso che si sono succedute infinite generazioni, da milioni di anni, dove li metteremo tutti?
Ebbene, la risposta di Gesù alla paradossale, ma tutt’altro che stupida, provocazione dei sadducei, è estremamente complessa, ma vale anche per noi.
Gesù usa due argomentazioni.
La prima.
Mette assieme più aspetti per spiegare cosa significa lo stato della risurrezione: il mondo dei risorti non è governato dalle stesse regole istituzionali che vigono in questo mondo. Ed usa l’espressione: “Sono uguali agli angeli”.
La seconda.
Per l’ebreo, il fondamento su cui si può reggere la fede nella risurrezione, sta nella Bibbia stessa da essi venerata; anzi, sta in colui che è considerato il “padre” della tradizione biblica, cioè Mosè.
La esperienza di Mosè nella visione del roveto ardente aveva già in sé tutti gli elementi per arrivare a credere in Dio, come il Dio della perennità della vita e non della morte, e quindi indirettamente il Dio della risurrezione, con queste parole: “Il Signore è Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti, ma dei viventi”.
Infatti, i tre personaggi nominati, seppure morti, dalle parole risulta che sono tuttora viventi.
Chiudo con una similitudine che riscontriamo in natura e che l’agricoltore sta compiendo proprio in questi giorni di semina.
Lui sa che i chicchi di grano, seminati nei campi, si disfanno e quindi in qualche maniera muoiono. Però, sa anche che non perdono la vita vegetale e quindi, in qualche maniera, risorgono. Ed infatti, germogliando, centuplicano la propria vita.
Il chicco, dunque risorge, non più quello di prima, ma da quello di prima, in maniera nuova e più ricca.
Quello che oggi ammiriamo in natura, non può il Signore farlo, in qualche maniera analoga, con l’uomo, facendolo risorgere?
Anzi, lo farà in maniera ancor più perfetta e per tutta l’eternità.
Sac. Cesare Ferri, Rettore Santuario San Giuseppe in Spicello