Testi liturgici: Gs 5,9-12; Sl 33; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
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A seguito della la parabola ascoltata, ci poniamo una domanda: in relazione ai due figli, noi a chi assomigliamo? A quello minore, oppure a quello maggiore?
Il ben pensante giudicherebbe subito che più bravo è il maggiore, in quanto rimane in casa, lavora nell’azienda di famiglia, non spreca soldi.
Invece, per il Signore Gesù ambedue sono fuori strada. A pensarci bene e riferito a noi, dovremmo accorgerci che spesso assomigliamo sia al figlio minore sia anche a quello maggiore, cioè non siamo come dovremmo essere.
Sappiamo bene che il padre della parabola sta a rappresentare il comportamento del Padre celeste, pieno di bontà, di comprensione, di misericordia e di perdono.
Ed è a lui che anche noi dovremmo assomigliarci.
Invece, spesso ci assomigliamo al figlio minore. Scorrendo la nostra vita, infatti, non dovrebbe sfuggirci che ci sono stati momenti di ribellione, che abbiamo ricercato una libertà capricciosa.
In un certo senso, abbiamo preteso la nostra parte di eredità, confidando nelle nostre capacità; la casa del Padre e la vita cristiana ci sembrava troppo impegnativa. Di conseguenza, abbiamo cominciato a raffreddarci, ed in qualche modo ce ne siamo andati.
In altre parole abbiamo cominciato a vivere la vita cristiana all’acqua di rose, siamo caduti nel peccato, abbiamo trascurato con molta facilità le pratiche religiose, la parola di Dio, la confessione; per noi contavano più le cose che, a nostro svantaggio, sostituivano il posto di Dio.
Poi, ci siamo resi conto che tutto questo è stata una cosa brutta, che non è soddisfacente vivere lontani da casa, lontani da Dio, ci siamo resi conto che di fatto ci mancava tutto, ci mancava la gioia del vivere.
Però tutti potremmo anche assomigliarci al maggiore che rimane in casa, ma che non si sente di casa. Infatti, è costantemente rivolto a se stesso, pure lui è insoddisfatto, tanto che vorrebbe un capretto tutto per sé.
Crede di essere a posto ma, pur non rendendosi conto, anche lui è lontano dal padre, tanto è vero che non è capace di fare festa con lui. Di fatto non si considera figlio, ma si mette nella stregua di servo.
È la situazione nella quale potremmo trovarci anche noi.
Pur praticando la vita religiosa, non siamo in piena sintonia con il Signore; osserviamo le pratiche religiose solo esteriormente, esse non incidono per una vita di amore, di comprensione, di misericordia, di solidità verso tutti.
In tale situazione, potremmo fare questo tipo di ragionamento: “Io sono una persona per bene; sono onesto, amo la mia famiglia, mi sacrifico per i figli e nipoti; sono religioso, sono una persona di fede; prego, vado a messa e mi accosto ai sacramenti; se posso faccio il bene ed il male non lo faccio a nessuno”. E così di seguito.
Niente da dire su tali ragionamenti e simili. Ma allora, perché spesso giudichiamo e condanniamo gli altri?
Perché a volte diciamo: “Se ci fossi io al posto di Dio, so come trattare certe persone!”.
Abbiamo tutti bisogno di acquistare maggiore amore, comprensione e misericordia!
A pensarci bene, ci rendiamo conto che spesso il nostro peccato è quello dei due figli della parabola: l’egoismo.
Ma con tutto ciò nulla è perduto, se sinceramente torniamo al Padre, come ci esorta Paolo: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Egli ci attende, ci abbraccia, ci perdona; egli ci ricrea, ci fa diventare nuovi, proprio come ancora dice Paolo: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove”.
Sac. Cesare Ferri rettore Santuario San Giuseppe in Spicello