Testi liturgici: Is 5, 1-7; Fil 4, 6-9; Mt 21, 33-43
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Oggi la parola del Signore sviluppa bene il discorso sulla vigna. La vigna è una immagine simbolica per significare il popolo che appartiene al Signore.
Nel VT essa rappresentava quello di Israele, oggi rappresenta la Chiesa di cui anche noi facciamo parte ed in cui con il battesimo, come tralci, siamo innestati in Gesù.
Coloro che lavorano e spendono la vita per il bene degli appartenenti alla Chiesa, si dice che lavorano nella vigna del Signore e questo particolarmente va riferito ai sacerdoti.
Nella prima lettura, per bocca del profeta Isaia, abbiamo potuto ascoltare il cantico di amore che il Signore compone per la sua vigna, per il suo popolo, su quello di Israele.
Cosa intende dire con tale cantico e cosa con esso oggi vuol dire a noi?
Con esso vuol affermare che il loro Dio non è come quello degli altri popoli. Il Dio di Israele, ed oggi il Dio della Chiesa cattolica, non è uno che si comporta capricciosamente, ma è un Padre che entra, e che vuol entrare, in profonda relazione d’amore con noi.
Egli per noi ha tanta tenerezza e cura, non manca di riempirci di doni, ci da tutto quello che serve per la nostra crescita spirituale e per la salvezza eterna. Con la sua parola vi pianta come delle “viti pregiate”, ci fa doni privilegiati, proprio per produrre uva di prima qualità, cioè grandi opere di bene.
Ma, purtroppo, spesso non vi è corrispondenza da parte nostra, vi è ingratitudine e infedeltà, tanto che anche nei nostri confronti potrebbe concludere con l’espressione: “Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?”.
A questo punto qualcuno potrebbe dire: “Riconosco i miei errori e peccati. Il Signore potrà perdonarmeli tutti?”.
Certamente. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’amore di Dio è al di sopra di ogni nostra infedeltà. Con il suo aiuto possiamo sempre ricominciare una nuova storia di amore e di fedeltà. Ed è quello che ci auguriamo.
Ora riflettiamo un poco sulla parabola evangelica, anche per comprendere l’ultima espressione di Gesù, quella di poterci escludere dal suo regno.
La parabola pone davanti al nostro sguardo la possibilità della cattiveria di cui l’uomo è capace.
I servi di cui parla Gesù non sono altro che i profeti che Dio aveva mandato continuamente al suo popolo per richiamarlo a vita migliore e che, quasi sempre, sono stati vittime di coloro stessi a cui erano stati inviati: tutti sono stati maltrattati e uccisi.
Ad un certo punto decide di mandare loro il proprio figlio che, come sappiamo, è Gesù Cristo. Anche lui non avrà una sorte diversa, sappiamo come l’hanno trattato mettendolo in croce.
Noi non vogliamo assomigliare a tali personaggi, non vogliamo che sia riferito a noi il richiamo di Gesù: “Vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad un altro popolo che ne produca frutti”.
Cosa vuol dire questo?
Se pocanzi ho accennato che particolarmente i sacerdoti sono chiamati a lavorare nella vigna del Signore, questo non vuol dire che gli altri battezzati ne siano dispensati. Ognuno in qualche maniera è chiamato a fare la sua parte, se non altro nel vivere con coerenza la propria fede e nel mettere in pratica l’amore vicendevole con la qualifica dell’amore disinteressato.
Se non fosse così, veramente ci sarebbe tolto il regno di Dio. In altre parole perderemmo tanti doni di grazia in questa vita, con il rischio poi di perderci per sempre.
Quali le conseguenze negative che provengono da questo fatto, di cui ne dovranno soffrire anche le persone buone e rette?
Quelli di perdere tanti mezzi di grazia. Non lamentiamoci, allora, se non avremo più vocazioni sacerdotali, se non avremo più il parroco, se non avremo più chi si prende cura dei ragazzi e della gioventù, se avremo divisioni sempre più marcate fra di noi.
Sac. Cesare Ferri rettore Santuario San Giuseppe in Spicello