Minicorso di Esercizi Spirituali 2020 sulla scorta del tema proposto dall'ISF
4.Paolo di Tarso - Da persecutore ad apostolo: essere crocifisso con Cristo perchè Egli viva in noi
(Testo base di riferimento Gal 1, 11-24; 2, 15-21)
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Introduzione
Diciamo, innanzitutto, che in altri contesti c’è una espressione di Paolo con la quale egli manifesta chiaramente di essersi avvicinato alla meta nel saper vivere la sua cristificazione: “Non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Questa meta non riguarda solo per lui, ma è per tutti e consiste nel cammino verso la santità.
Don Alberione nel 1963, sviluppando lo stesso argomento, scriverà: La santità vera e unica è quella del Vangelo. La santità autentica è quella vissuta da Gesù, da Maria e da Giuseppe.
La santificazione è un processo di cristificazione: vivere in Cristo perché il Padre ha mandato il suo Figlio affinché “avessimo la vita per mezzo di lui”.
San Paolo ci indica in che consiste la santità: “Poiché quelli che conobbe in antecedenza, ancora li predestinò ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché sia Lui il primogenito tra molti fratelli”.
Il pensiero di Paolo sulla cristificazione
Sviluppiamo ora questo pensiero di Paolo sulla cristificazione.
Per lui sta nel passare da una religiosità fatta di “osservanza” – cioè l’osservanza delle leggi e delle prescrizioni varie - ad una religiosità fatta di “alleanza”, cioè una piena comunione intima con Cristo, tanto da poter dire veramente: “Non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Proprio a tal proposito, c’è da intendere bene l’episodio avvenuto lungo la strada di Damasco, quello che noi solitamente definiamo con il termine di “conversione”.
Il termine “conversione” non sarebbe un vocabolo che dice tutto, si dovrebbe tradurre meglio con quello di “illuminazione”, cioè al fatto che gli ha fatto capire chiaramente quello che vale nella vita, un valore tale che ha il potere di trasformare la vita stessa.
In altre parole, non è una conversione morale come la intendiamo noi, cioè consistente nel fatto di riconoscerci peccatori e quindi decisi a cambiare modo e stile di vita. Paolo non sarebbe stato un peccatore, anzi era tutt’altro. Era uno che osservava perfettamente la legge, e quindi non poteva rimproverarsi nulla in tale senso, perché era veramente un giusto, era un santo diremmo noi oggi. Infatti egli compiva tutto con coscienza pura e retta.
Non è neppure un cambiamento di bandiera, nel senso che, con lo stesso spirito, passa dallo zelo per la legge di Mosè a quella indicata da Cristo, non passa dal servizio della sinagoga a quello della Chiesa.
Egli infatti, quando racconta l’episodio, non usa la parola “conversione”.
Sottolineo di nuovi alcuni aspetti già considerati nella prima riflessione.
Paolo sa bene che ha pure il senso ristretto che noi attribuiamo al vocabolo “conversione” e non lo scarta, tanto è vero che di fatto anche lui ha dovuto cambiare comportamento. Però il vocabolo “conversione” da solo non esprime tutto. Bisogna arrivare a comprendere che c’è qualcosa di molto più profondo.
Ed ecco, pertanto, che Paolo considera l’evento di Damasco come un “mistero”, nel senso di un intervento diretto di Dio. In un passo delle sue lettere affermerà che è stato “afferrato” da Cristo, come lo sono stati Abramo, Mosè e altri personaggi biblici e cristiani, sino al nostro Giacomo Alberione.
È proprio quello che intende esprimere in Galati: “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno si mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare in me suo Figlio, perché lo annunziassi in mezzo ai pagani subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco”.
Ma c’è di più. Non è una rivelazione limitata solo alla persona di Paolo, ma è anche per affidare a lui una missione, quella di annunziare ai pagani che la salvezza proviene solo da Gesù Cristo e non dalle nostre pratiche senza un necessario riferimento a lui.
Di fatto cosa ha prodotto in lui questa illuminazione?
Lo ha trasformato innanzitutto nel cervello, nel modo di pensare. È la cosa principale e necessaria, come abbiamo detto sin dalla prima meditazione.
È lui stesso a dirlo ai Filippesi: “Tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale tutto è spazzatura”.
In questo caso, per spazzatura intende la circoncisione a cui si era sottomesso, lo zelo fine a se stesso come da lui praticato, l’irreprensibilità nell’osservanza perfetta della legge.
Se è irreprensibile nell’osservanza della legge ed ore diventa una “spazzatura”, questo indica che non si deve più osservare la legge?
No, l’osservanza doverosamente rimane. Ma allora cosa è cambiato in lui?
In lui è avvenuta una rivalutazione completa di tutta la realtà mondana. Quello che prima considerava importante, ora gli appare zero, non gli desta interesse alcuno. Per cui quello che prima sarebbe stato “irrinunciabile”, ora è divenuto solo “spazzatura”.
Che in antecedenza sia stato “irreprensibile”, lo farà in un elenco che utilizza per difendersi dalle accuse di aver abbandonato la tradizione dei padri.
Ed ecco che risponde col dire di essere “Circonciso”, quindi non maledetto o abbandonato da Dio come i pagani; di essere “Stirpe di Israele”, quindi appartenente al popolo eletto; di essere della “Tribù di Beniamino”, quindi conosce gli antenati e il legame che lo riporta a Giacobbe; di essere “Ebreo da ebrei”, quindi padre, madre, nonni, tutti di questa gloriosa generazione; “Fariseo, quanto alla legge”, quindi un ebreo perfetto, della stretta osservanza; “Persecutore della Chiesa, quanto a zelo”, quindi fedelissimo al massimo; “Irreprensibile, quanto alla giustizia che deriva dalla legge”, quindi uomo “giusto” come Giuseppe, Gioacchino e Anna, Zaccaria ed Elisabetta. Era la massima lode che si poteva fare dal punto di vista biblico.
In altri contesti dirà pure che viveva l’elenco delle realtà appena citate come “un tesoro geloso”. Guai chi lo avesse osteggiato in tale aspetto!
Con tutto questo, pertanto, l’evento di Damasco è molto più complesso di un semplice episodio di conversione morale.
È vero che altrove accusa se stesso quale bestemmiatore, persecutore, violento. Però, tutto sta ad intendersi.
Non bestemmiatore nel senso comune, ma nel senso che si è messo contro il Figlio di Dio, non tanto perché ce l’aveva con lui, quanto per difendere il suo tesoro. Si è considera peccatore, in quanto si è accorto che il suo atteggiamento era profondamente sbagliato.
Infatti, non considerava Dio come tale, cioè autore e origine di ogni bene, come essere essenziale e centrale, al centro invece restava lui, il “suo” possesso, la “sua” verità, i “suoi” tesori.
A prima vista erano atteggiamenti apparentemente “irreprensibili”, ma profondamente erano di una possessività esasperata.
Con tale comportamento egli non viveva il vangelo della “Grazia”, ma la legge della “autogiustificazione”, dimenticandosi di essere un pover’uomo. Se ora ha capito di aver ottenuto grandezza, lo è non perché lui fosse valso qualcosa, ma perché è stato amato da Dio.
Concludendo, Paolo aveva il peccato che Gesù avrebbe rimproverato ai farisei, quello di essere stato cieco e guida di ciechi, ed ancor peggio perché se ne vantava.
Applichiamo a noi
Non potremmo anche noi vivere quello che era stato l’atteggiamento di Paolo prima della illuminazione?
Infatti, potremmo dire anche noi di essere irreprensibili.
Potremmo dire con un certo orgoglio di essere sposati regolarmente, di essere stati sempre fedeli al coniuge, di non aver mai mancato alla messa domenicale ed anche feriale, di continuare a dire sempre le nostre preghiere utilizzando pure la liturgia delle ore, di essere stati chiamati e consacrati nell’ISF, di collaborare in parrocchia, di fare apostolato e così via.
Tutto questo è buono ma se si ferma solo qui è una pura osservanza, potrebbe non essere utile per fare una vera comunione con Cristo, potrebbe non produrre la vera cristificazione.
Lo spiega la similitudine che spesso propongo. Non è la legna a scaldarci, ma il fuoco, seppure la legna non può mancare per alimentare il fuoco.
La stessa cosa vale per noi. Guai se mancasse quanto abbiamo elencato, ma non servirebbero a nulla se non lasciamo ardere in noi il fuoco dello Spirito, se non è Gesù a condurci nelle sue vie.
La cosa di cui convincersi è credere che è molto più importante ciò che il Signore vuole operare in noi trasformando i nostri cuori, rendendo evangeliche le nostre scelte, piuttosto che di ciò che apostolicamente facciamo per gli altri.
In altre parole, noi valiamo per quel che siamo e non per quello che facciamo; vale più il nostro stile di vita piuttosto che le parole di esortazione rivolte agli altri.
Però, per poter “essere”, abbiamo bisogno di riservarci un tempo per alimentarci con la Parola di Dio, con la meditazione, con la preghiera, con l’adorazione; abbiamo bisogno di creare il tempo per essere come Giovanni nell’ultima cena, nel saper tenere il capo sul petto di Gesù.
Per tornare alla similitudine, è alimentare il fuoco fornendogli ogni tanto un poco di legna, ed ecco l’aiuto delle pratiche di pietà.
Per concludere, riprendiamo l’espressione citata all’inizio della nostra riflessione, per poterla risentire nella sua completezza: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”.
Questo significa che tra Cristo e il cristiano c’è una appartenenza reciproca, quasi una saldatura, cosa che determina una riversibilità, in base alla quale ciò che è proprio di Cristo passa nel cristiano e ciò che è proprio del cristiano, sia pure visto nella sua debolezza, fragilità e limitatezza, passa in Cristo e ne acquista il valore.
In maniera analoga ma con effetti diversi dal nostro alimentarci quotidiano.
Noi nutrendoci trasformiamo il cibo in noi, nutrendoci di Cristo è lui a trasformarci in se stesso.
Ecco allora che si comprende il significato dell’espressione. “Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me”.