Chiesa interno con presbiterio sino 2013 Riflessione dettata dal rettore alle famiglie riunite in ritiro il 09 marzo 2014 presso il Santuario San Giuseppe in Spicello di San Giorgio di Pesaro
Testo base: Ef 5, 1-20
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Nella recente settima domenica del T.O. la conclusione evangelica così si esprimeva: “Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste”.
L’inizio del brano, ora ascoltato, ripete lo stesso concetto: “Fatevi imitatori di Dio… Comportatevi come figli della luce…”.
Paolo, successivamente, ci presenta le indicazioni pratiche per mettere in atto questo “essere figli della luce”.
Diciamo subito che, per meglio comprendere il valore della luce, è necessario aver fatto l’esperienza delle tenebre.
Ebbene, i nostri padri fondatori, sia Paolo che Alberione, hanno fatto tale esperienza e, se la mettiamo in parallelo, scopriamo che è identica.
Di Paolo, mentre a mezzogiorno è in viaggio verso Damasco, è scritto negli Atti: “Durante il viaggio, verso mezzogiorno, prima di entrare nella città di Damasco…”. Subito dopo si legge: “Ecco all’improvviso dal cielo venne gran luce; sentì una voce che diceva: <Saulo perché mi perseguiti?>”.
Di Alberione, mentre dalla mezzanotte si trova nel duomo di Alba, si legge da lui scritto: “La notte che divise il secolo scorso dal corrente (il 31.12.1900 e il 01.01.1901), fu decisiva per la specifica missione… Si fece l’adorazione solenne e continuata in duomo di Alba”. Subito dopo continua a scrivere: “Una particolare luce venne dall’Ostia santa; maggior comprensione dell’invito di Gesù: <Venite a me tutti>”.
Da notare che, in ambedue, precedentemente vi era stato un buio: la persecuzione contro i cristiani da parte di Paolo; la crisi della vocazione da parte di Alberione, mentre si trovava nel primo seminario di Torino.
Ed ancora, sempre riferite a loro, altre situazioni analoghe.
Di Paolo, che si definisce un cieco guidato, si legge: “La luce era così forte che io non ci vedevo più. Allora i miei compagni mi presero per mano”.
Di Alberione, che si definisce un semicieco guidato, si legge; “Ecco un semicieco che è guidato; e col procedere viene di tanto in tanto illuminato, perché sempre possa avanzare”.
Chiaramente, la loro cecità fisica fa riferimento a quella morale e spirituale ed è per far meglio comprendere la luce che viene da Dio.
Come per Paolo, anche per Alberione, come ci ha raccontato, questa illuminazione di Dio è stata progressiva.
Per Alberione, il momento “clou” è quello della citata notte, quando aveva 16 anni e nove mesi.
Altri due momenti importanti ci sono stati in lui e nei quali si è manifestata la luce di Dio.
Il primo momento risale all’infanzia, nell’anno scolastico 1890/1891.
Così è raccontato da lui: “La maestra Cardona, tanto buona, vera Rosa di Dio, delicatissima nei suoi doveri, interrogò alcuni degli 80 alunni che cosa pensavano di fare in futuro, nel corso della vita. Egli fu il secondo interrogato: rifletté alquanto, poi si sentì illuminato e rispose, risoluto, tra la meraviglia degli alunni: <Mi farò prete>. Ella lo incoraggiò e molto lo aiutò. Era la prima luce chiara”.
Il terzo momento sarà nel 1910.
Così è raccontato da lui: “Pensava prima ad una organizzazione cattolica di scrittori, tecnici, librai, rivenditori cattolici; e dare loro indirizzo, lavoro, spirito di apostolato… Verso il 1910 fece un passo definitivo. Vide in una maggiore luce: scrittori, tecnici, propagandisti, ma <religiosi> e <religiose>”.
Tornando all’esperienza della notte, è da notare che all’Alberione capitò come era capitato a Mosè.
Mosè, scendendo dal monte dopo aver ricevuto la Legge di Dio, dovette coprirsi il volto, per la troppa luce che emanava.
Anche l’Alberione annota che gli sarebbe capitato qualcosa di analogo.
Racconta che al mattino qualcosa traspariva dalla sua persona, tanto che scriverà: “Alle ore dieci del mattino doveva aver lasciato trapelare qualcosa del suo interno, perché un chierico incontrandolo gliene fece le meraviglie”.
Ora veniamo al pratico, riferiamo tale luce a noi e vediamo se essa illumina o meno la nostra vita.
Ci è stato detto: “Comportatevi come figli della luce”.
C’è un modo solo per incontrare, ricevere e vivere nella luce: si tratta di mettere in pratica la carità, amando veramente e seriamente.
Lo abbiamo ascoltato da Paolo: “Camminate nella carità, nel modo con cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi”.
Gesù, dandoci il nuovo comandamento, aveva detto: “Amatevi come io vi ho amato”.
A questo punto si potrebbe domandare: “Come è possibile coltivare in noi un amore per gli altri pari a quello avuto da Cristo per noi?”.
A tal proposito, c’è da capire una cosa, che non è tanto un confronto da fare, quanto un fondamento da trovare e su cui poggiare.
La forza di amare, infatti, non viene dal nostro sforzo titanico, ma da Gesù il quale ama noi e attraverso noi vuol amare gli altri.
Pertanto, non ci rimane altro che farci usare da lui, come strumenti.
Solo così ci comportiamo da figli della luce.
Di conseguenza, per il fatto che la luce di Cristo brilla in noi, il suo amore dà forza alle nostre parole, dà limpidezza al nostro comportamento, rende efficace la nostra testimonianza.
Detto questo, riusciamo pure a comprendere il motivo per cui tante volte sentiamo ripetere una certa espressione: “al primo posto non sta l’operare, ma sta l’essere”.
Paolo lo conferma continuando: “Comportatevi, perciò, come figli della luce”.
In altre parole, per poter vivere nella carità, occorre evitare tutto ciò che la ostacola.
Di seguito Paolo fa l’elencazione dei peccati da evitare per vivere nell’amore.
Precisamente dice: “Di fornicazione e di ogni specie di impurità o di cupidigia, neppure si parli tra voi; né di volgarità, insulsaggini, trivialità”.
La prima triade tocca la sfera sessuale: essa parte dalla fornicazione (cioè l’uso sfrenato del sesso); poi denuncia l’impurità (cioè la condotta sessuale disordinata); per confluire sulla cupidigia (cioè l’avidità smodata di possesso e di soddisfazione egoistica, in questo caso, dell’altra persona).
La seconda triade fa riferimento al linguaggio osceno (cioè il parlare vergognoso e sconcio) che, a sua volta, è sintomo dell’esistenza in noi di quanto detto in precedenza.
Poi, così prosegue: “Piuttosto rendete grazie!”. Lo stesso concetto è ripetuto alla fine: “Intrattenendovi tra voi con salmi, inni e canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore… rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre”.
È chiaro che l’espressione fa riferimento innanzitutto all’Eucaristia, e poi alla liturgia delle ore ed infine alla preghiera personale e di coppia.
Proseguendo nella lettura, ad un certo punto abbiamo anche ascoltato: “Cercate di capire cosa è gradito al Signore”.
Pertanto, “vivere nella luce” significa “fare ciò che piace al Signore”.
Però, a questo punto, potremmo incorrere in un rischio: quello di pensare che a Dio piace quello che, a nostro giudizio, è considerato buono e che facciamo con intenzione retta e sincera.
Nulla da dire, certamente non è peccato di commissione.
Ma non dobbiamo dimenticare che ci sono anche i peccati di omissione. Quel bene che facciamo potrebbe non essere piena volontà di Dio, perché egli aspetta da noi qualche altra cosa, ma che noi, per superficialità o altro, stiamo trascurando.
Paolo ci dice quello che piace al Signore: “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità”.
Pertanto, la volontà di Dio non è solo questione di non fare il male; è questione, invece, di essere o non essere, di vivere con un senso o meno, di fare il bene in un certo modo o in un altro.
In altre parole, si tratta di fare sempre e bene le cose richieste dal nostro stato di vita, in uno spirito di obbedienza ai doni che Dio ci ha elargito.
A tal proposito soleva ripetere Alberione: “Fare le cose ordinarie in modo straordinario. La santità non sta nelle cose che si fanno, ma nel modo con cui si fanno”.
Solo così la parola “luce” acquista il suo vero significato.
Infatti, tutto ciò che è fatto con amore e per amore, fosse anche il gesto più banale, diventa veramente “luce”.
Capite, allora, come a questo punto vanno a farsi benedire tutti i confronti che facciamo con l’agire degli altri e che ci fa dire: “Mi piacerebbe fare quello che fa la tale persona... siccome io non riesco a farlo e sono costretto a rimanere in ombra, quella persona mi diventa scomoda e… mi dispiace per quello che fa”.
Questo ragionamento è spesso nel subconscio e di cui neppure ci rendiamo conto. È un fatto che denota una qualche carenza di carattere psicologico. Però bisogna anche guarire e uscirne.
Si tratta, allora, di riflettere.
Veramente il Signore vuole da te quello che chiede all’altro?
O non ti chiede, piuttosto, che tu faccia il bene solo in base al dono che hai ricevuto, senza venire meno ai doveri del proprio stato di vita?
Fare un certo tipo di bene, trascurando i doveri del proprio stato, non è gradito dal Signore.
Se, sul piano della fede, vivessimo di queste convinzioni e agissimo di conseguenza, scomparirebbero tutte quelle forme di gelosia e di invidia, forme che, a loro volta, creano solo disagi, divisioni e disarmonie, togliendo la gioia di ritrovarsi e stare insieme.
Scendendo al concreto, cito un qualcosa che ha risonanza a livello comunitario; e ancor più concretamente che tocca ognuno per il fatto di appartenere all’Istituto.
Un dono molto importante che ciascuno deve fare all’altro è, ad esempio, la partecipazione ai momenti comunitari di crescita.
Ammesso pure, e non concesso, che possa sembrare tempo sprecato o non pienamente arricchente, in realtà e in tale caso, tu stai rubando qualcosa, togliendo al fratello o alla sorella il dono della tua presenza.
Tutti dovremmo godere della presenza e del dono dell’altro, perché la presenza di ognuno è un dono ed è ricchezza per tutti.
Solo così mettiamo in pratica proprio quanto ci ha detto Paolo, come citato prima: “Piuttosto rendete grazie!... Intrattenendovi tra voi con salmi, inni e canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore… rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre”.
Sac. Cesare Ferri, rettore Santuario San Giuseppe in Spicello