Riflessioni di don Ferri in ritiri
"Vieni al Padre, fonte di Misericordia"
18 ottobre 2025 * S. Luca evangelista
itenfrdeptrues
La carita non si vantaRiflessione tenuta dal rettore alle famiglie riunite in ritiro il giorno 2 aprile 2017 presso il Santuario San Giuseppe in Spicello di San Giorgio di Pesaro.
L'amore non si vanta, non è orgoglioso
(Testo base: Lc 18, 9-14)
Per il documento: clicca qui
Premessa
Abbiamo detto altre volte come tutti i vizi pongano le loro radici su quello che è il vizio fondamentale, quello dell’orgoglio. Chi è orgoglioso non sa amare.
Il brano dell’inno alla carità, su cui oggi vogliamo riflettere, ce lo dice espressamente: “L’amore non si vanta, non si gonfia di orgoglio”.
Per spiegarlo, Gesù utilizza la quanto mai eloquente parabola del fariseo e pubblicano, nel momento in cui si trovano in preghiera.

In cosa consistono il vanto e l’orgoglio
Cosa sono il vanto e l’orgoglio e come si differenziano dall’invidia?
Nella riflessione precedente abbiamo detto come il brutto della persona invidiosa non stia tanto nel desiderare “santamente” quello che possiede l’altro, ma nel rattristarsi per il fatto che lo possiede.

La persona orgogliosa, invece, si schiera decisamente sul fronte opposto; in un certo senso cerca di rendere gli altri invidiosi di quello che egli possiede.
Mette volutamente in mostra tutto quello che ha e quello che fa, per poter in qualche modo umiliare l’altro.
Se l’invidia tende ad abbassare gli altri; il vanto eleva se stessi, con la conseguenza di poter avere la soddisfazione di abbassare gli altri.
Da questo punto di vista sembra proprio che invidia e orgoglio vadano a braccetto, vadano di pari passo.
Quando ci si preoccupa troppo della propria immagine, la conseguenza è che ci si dimentica di amare, ed inoltre si rischia facilmente di ferire gli altri.
Il vanto si manifesta quando abbiamo un’opinione troppo alta di noi stessi, quando parliamo troppo di noi stessi.

Invece, l’amore vero nasconde la propria gloria e sa dar valore a quella del prossimo, ovviamente in modo retto, sano e sincero.
La parabola del fariseo e del pubblicano
Ed ecco la parabola del fariseo e del pubblicano. È una parabola, che si pone a noi su due fronti, il primo su quello della preghiera e poi su quello dell’orgoglio e del vanto.
Assieme alla parabola del giudice iniquo e dell’amico importuno che immediatamente la precedono, formano una sorta di piccola catechesi sulla preghiera stessa. Essa deve essere persistente, fiduciosa ed umile.
La parabola della vedova importuna è centrata sulla perseveranza con cui portare avanti la preghiera; si deve pregare sempre, senza stancarsi, con la pazienza della fede.
La parabola dell'amico importuno esorta alla preghiera fatta con fiducia: “Bussate e vi sarà aperto”. A colui che prega così, il Padre del Cielo: “Darà tutto ciò di cui ha bisogno”, e principalmente lo Spirito Santo che contiene tutti i doni.
La presente parabola, infine, invita a pregare con umiltà di cuore: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore”, facendo nostra la preghiera del pubblicano.
Tuttavia, Luca qui non si limita solo al tema della preghiera, ma affronta pure quello del comportamento della persona, mettendo in rilievo il giusto nostro atteggiamento per dar valore al comportamento stesso.
Lo fa mettendo in contrapposizione due atteggiamenti, presi dal mondo del giudaismo. Il fariseo e il pubblicano, infatti, sono due figure tipiche di quel mondo.
È anche spiegata la motivazione per cui Gesù la racconta: “Per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti”. È vero! C’è in alcuni una eccessiva fiducia in se stessi, la presunzione di essere giusti.
Quante volte abbiamo sentito anche noi l’espressione: “Io mi comporto bene e non faccio il male a nessuno; è vero che non sono un assiduo praticante, ma non sono neppure tra quelli che vanno in chiesa e poi ... sono peggio degli altri! Io, davanti a Dio e alla coscienza sono a posto!”.
Questa sarebbe una personale questione di coscienza, ma Gesù vi aggiunge: “… e disprezzavano gli altri”.
Chi erano effettivamente questi “alcuni”, a chi in particolare erano indirizzate queste parole?
Non certo a quella folla di persone che accorrevano per sentirlo parlare e che nelle sue parole trovavano conforto; ma sono riferite a coloro i quali, più che in Dio, avevano fede in se stessi, contando sui propri meriti davanti a Dio.
Ebbene, questa è la radice autentica dell'orgoglio: la convinzione di non avere alcun peccato, di compiere tutti i doveri religiosi, di rispettare tutte le norme e, quindi, di non avere bisogno di salvezza proveniente da Dio, in quanto ce la procuriamo da noi stessi. In altre parole, è la nostra bravura a poterla strappare da Dio.
La cosa potrebbe essere trasferita anche in riferimento all’Istituto Santa Famiglia, per il fatto della fedeltà a quanto richiesto da esso.
Il tutto, come se la salvezza e il cammino di santità dipendesse dai propri meriti e non quale dono del Signore, ovviamente da noi accolto e fatto fruttificare, attraverso i mezzi che ci mette a disposizione.
Questa certezza, che è del tutto fallace, ci rende vanagloriosi, e ci fa essere indifferenti al perdono di Dio, che viene ridotto così ad uno degli ennesimi precetti cui ottemperare.
E' quanto avviene al fariseo. Il riferimento al digiuno che pratica due volte alla settimana è illuminante. La religione ebraica, infatti, richiedeva il digiuno con una cadenza assai minore, per cui egli si riteneva più bravo degli altri.
È vero che egli giustamente ringrazia Dio; però non per i doni ricevuti da lui e per quanto Dio abbia fatto per lui, ma lo ringrazia per essere stato tanto bravo a servirlo.
Ed è per questo che se ne sta in piedi, a testa alta; non si prostra di fronte al Signore, non ne riconosce la grandezza.
Egli si vanta di sé, presenta a Dio solo la sua vanagloria, arricchita da buoni gesti compiuti, fatti più per gratificare se stesso che per onorare il Signore. Gesti che, ovviamente, non hanno prodotto frutti di carità, di benevolenza e di comprensione verso gli altri e, nel caso specifico, verso il pubblicano.
Egli non possiede, e non può quindi offrire quello che più conta, cioè un cuore contrito e umiliato, che è il vero sacrificio gradito a Dio.
È molto chiaro che il fariseo, al posto di Dio, mette il suo io. E' attento solo a se stesso, come suggerisce l’espressione: “Pregava tra sé”. Essa chiarisce ottimamente quanto sia ripiegato sulla propria persona.
Con quali conseguenze?
Se è indifferente alla bontà di Dio, lo diventa anche verso gli altri. Anzi, anche peggio, si erge a giudice, disprezza e condanna.
Il pubblicano, invece, sa di non avere meriti, di non potersi vantare di nulla, di non possedere nulla. Però, ha l'unica cosa che conta: la fede autentica, la certezza che Dio può risollevarlo.
Egli nutre fiducia solo in Colui che può salvarlo, non ha fiducia in se stesso. Per questo instaura un autentico rapporto con il Signore, e innalza una preghiera vera, che Gesù loda, assicurando che egli torna a casa giustificato, a differenza del fariseo.
Tutti siamo peccatori, tutti abbiamo bisogno del Suo perdono.
Questa parabola è detta per ciascuno di noi, che facilmente, e spesso senza renderci conto, assomigliamo al fariseo. Siamo invitati a riconoscerci pubblicani, e a chiedere con fiducia il perdono di Dio, senza fare confronti con altri.
Questo vale anche per lo stato di vita nel quale ci troviamo, per la chiamata del Signore. C'è sempre il rischio di ritenere la propria vocazione migliore di quella di altri.
O, meglio, può uno stato di vita come tale essere più perfetto di un altro, ma non è detto che la persona che vi fa parte sia migliore di altre.
Questa convinzione, purtroppo, può indurre i religiosi e le religiose a sentirsi migliori degli sposi, o gli sposi consacrati migliori di chi non lo è.
L'unico vanto che dobbiamo avere è l'amore di Dio, che giunge fino all'effusione del sangue; questo vanto ci accomuna tutti, perché Cristo è morto per tutti.
Per questo San Paolo ammonisce: “Chi si vanta, si vanti nel Signore”.
Il pensiero dei santi e del magistero
Cosa dice don Alberione in proposito?
Ecco cosa ha detto: “Quale ingratitudine e quale temerità usare, per esempio, del dono dell'intelligenza, per vantarsi, compiacersi, insuperbirsi; usare il dono di Dio contro Dio, facendo centro delle sue aspirazioni se stesso, mentre è Dio che deve regnare in noi. Il lavoro sta qui: all'io sostituire Iddio; che Dio sia padrone interamente del nostro cuore, padrone della nostra intelligenza e di tutto il nostro essere. Istruirsi, perché quando noi avremo un'idea chiara della malizia del difetto, lo considereremo come un nemico capitale, il quale è sempre lì ad insidiarci”.
Cosa dice Papa Francesco in proposito?
In una recente udienza ha detto: “L’ipocrisia può insinuarsi ovunque, anche nel nostro modo di amare.
Questo si verifica quando il nostro è un amore interessato, mosso da interessi personali; e quanti amori interessati ci sono … quando i servizi caritativi in cui sembra che ci prodighiamo sono compiuti per mettere in mostra noi stessi o per sentirci appagati: “Ma, quanto bravo sono”! No, questa è ipocrisia! o ancora quando miriamo a cose che abbiano “visibilità” per fare sfoggio della nostra intelligenza o della nostra capacità. Dietro a tutto questo c’è un’idea falsa, ingannevole, vale a dire che, se amiamo, è perché noi siamo buoni; come se la carità fosse una creazione dell’uomo, un prodotto del nostro cuore.
La carità, invece, è anzitutto una grazia, un regalo; poter amare è un dono di Dio, e dobbiamo chiederlo. E Lui lo dà volentieri, se noi lo chiediamo.
La carità è una grazia: non consiste nel far trasparire quello che noi siamo, ma quello che il Signore ci dona e che noi liberamente accogliamo; e non si può esprimere nell’incontro con gli altri se prima non è generata dall’incontro con il volto mite e misericordioso di Gesù”.
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

facebook

"... io piego le ginocchia
davanti al Padre,

dal quale ogni paternità
nei cieli e sulla terra." (Ef. 3,14-15)

Visite agli articoli
3656028

Abbiamo 61 visitatori e nessun utente online