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icona-san-paoloIn un convegno a Tarragona avanzate nuove ipotesi sugli ultimi anni di vita dell'apostolo

di Armand Puig i Tárrech*

«Gli ultimi anni di vita di san Paolo apostolo»: Con questo titolo, si è svolto a Tarragona, in Spagna, un congresso internazionale che ha riunito oltre trenta esperti di studi paolini.

La storica città catalana, la Tarraco romana, capitale della provincia Hispania Citerior o Tarraconensis, era il luogo ideale per interrogarsi sui fatti e sulle circostanze che possono aver determinato una questione complessa ma di grande interesse. Con il sostegno dell'arcivescovado di Tarragona, del Governo catalano, della Facoltà di Teologia della Catalogna, e dell'Istituto superiore di scienze religiose Sant Fructuós -- così chiamato in onore al vescovo martire Fruttuoso di Tarragona, il protomartire ispanico -- si è svolto un congresso che rappresenta un punto di riferimento imprescindibile. È ormai lontano il 1742, anno in cui il bibliotecario di Wittemberg, Johann Just Spier, pubblicò le 62 pagine della sua Historia critica de hispanico Pauli apostoli itinere, che terminavano negando il viaggio dell'apostolo in terra ispanica. Per Spier, le informazioni contenute nelle fonti cristiane antiche che testimoniano tale viaggio, non supererebbero il vaglio di una seria analisi critica. Secondo lo studioso tedesco, era chiaro che Paolo sarebbe voluto andare in Hispania (cfr. Romani, 15, 24. 28), ma non era altrettanto sicuro che avesse effettivamente realizzato il suo proposito.
Dopo il congresso di Tarragona (2013), le tesi di Spier, riprese successivamente da una buona parte dell'esegesi critica tedesca e anglosassone, hanno perso la loro consistenza. In primo luogo, vi sono buone ragioni per affermare l'esistenza di un viaggio di Paolo In Hispania e, di conseguenza, non vi sono motivi evidenti per negare la sua presenza in territorio ispanico. La ricerca esegetica si trova quindi in una posizione aperta, che deve esprimersi in termini di “plausibilità” e di “possibilità”.
In secondo luogo, Tarragona è la città ispanica che soddisfaceva le condizioni di carattere geografico, economico, sociale, politico, culturale e religioso per essere la destinazione del viaggio di Paolo. Lo dimostra il confronto con altre città dell'impero, anch'esse porti e capitali di provincia, che Paolo evangelizzò (Efeso in Asia, Tessalonica in Macedonia, o Corinto in Acaia). In terzo luogo, e malgrado le informazioni, peraltro scarse, di Ireneo da Lione e Tertulliano sulla diffusione del cristianesimo in Hispania intorno al 200 dell'era cristiana e sull'esistenza di una fiorente comunità cristiana a Tarraco a metà del III secolo, non ci sono testimonianze antiche di un culto a san Paolo a Tarragona -- ve ne sono invece di un culto a Santa Tecla -- e ciò porta a concludere che la missione paolina a Tarragona non dovette essere un successo.
Di fatto, come hanno opportunamente spiegato John Barclay, e Jörg Frey nell'intervento iniziale e in quello finale del congresso, l'ultimo periodo della vita di Paolo trascorre sotto il segno della prigionia e dell'insuccesso: il Signore ha sottoposto il grande missionario alla prova delle catene e a grandi difficoltà nel portare avanti, nonostante tutto, la sua vocazione di apostolo dei gentili. Sembrerebbe che il compito che Dio gli aveva affidato (cfr. Galati, 1, 15-16) e che Paolo aveva fedelmente svolto durante un decennio d'incontenibile attività, sia ora diventato un «apostolato interno», dove risplendono intensamente la gratitudine e la forza della Parola di Dio, l'unica che «non è incatenata» (2 Timoteo, 2, 9).
Il congresso di Tarragona, al quale hanno partecipato esegeti, studiosi del mondo romano, storici del diritto romano, archeologi e patrologi, è stato suddiviso in tre blocchi, corrispondenti alle tre questioni principali: il progetto missionario occidentale di Paolo, espresso nella Lettera ai Romani, con Roma come base di azione e l'Hispania come campo apostolico (Reimund Bieringer, Michel Quesnel, Nicholas T. Wright, Eddie Adams); le questioni legali relative al processo di Paolo e i problemi con le autorità romane durante il ministero dell'apostolo (Loveday Alexander, Agustí Borrell, Heike Omerzu, Friedrich W. Horn); le fonti canoniche e non canoniche sugli ultimi anni della vita di Paolo, a partire dal biennio romano (Tobias Nicklas, Benoît Standaert, Rainer Riesner, Jens Herzer).
In ciascun blocco, l'analisi della questione principale veniva completata da alcuni temi che aiutavano a esaminarla: gli ebrei e i cristiani a Roma sotto Nerone (Karl-Wilhelm Niebuhr, Erich S. Gruen, Peter Lampe, Peter Oakes); le procedure e le pene legali relative a cittadini romani nel i secolo (Bernardo Santalucia, Juan Chapa, Valerio Marotta, John G. Cook); l'attività letteraria e missionaria di Paolo durante il processo romano: la Lettera ai Filippesi (Udo Schnelle, Daniel Gerber) e il viaggio in Hispania (Christos Karakolis e chi scrive). Nella parte finale del congresso è stata esaminata la tradizione romana della morte di Paolo dal punto di vista documentale e archeologico (Lucrezia Spera, Angelo di Berardino e Romano Penna). Gli atti saranno pubblicati in lingua inglese dalla casa editrice Mohr Siebeck (Tubinga, Germania) nel 2014.
Come possiamo ricostruire gli ultimi anni della vita di Paolo, dal momento in cui termina il biennio romano di prigionia mitigata dell'apostolo sotto custodia militare (Atti degli apostoli, 28, 16 e 30)? La soluzione più radicale è quella della sua condanna a morte e della sua immediata esecuzione, decretate dal tribunale imperiale a cui Paolo si era rivolto (Atti degli apostoli, 25, 11). Tuttavia a questa soluzione si possono fare tre obiezioni. In primo luogo, le testimonianze scritte: la prima lettera di Clemente (5, 5-7), secondo la quale Paolo sarebbe giunto «ai limiti dell'Occidente» -- questa frase, scritta a Roma, può indicare solo un territorio più in là di Roma -- e il Canone muratoriano (35-39), altro documento romano, secondo il quale Paolo avrebbe viaggiato «dall'Urbe in Hispania».
È indubbio che nella Roma del ii secolo esistesse la tradizione del viaggio ispanico di Paolo. È quindi evidente che su questo punto il pondus della prova ricade su coloro che scelgono di negare la validità di queste due informazioni.
In secondo luogo, come ha indicato Santalucia, è impossibile precisare la natura esatta dell'accusa che determinò la pena capitale per Paolo. È possibile supporre che i suoi accusatori (cfr. Atti degli apostoli, 24, 5) volessero incolparlo di seditio, ovvero di maiestas principis, per avere incitato la folla, e questa accusa avrebbe significato per Paolo la pena di morte se il procedimento si fosse svolto sotto Festo, governatore della Giudea, nella forma ordinaria. Ma non fu così.
Paolo si era rivolto a Cesare, e a Roma i tribunali imperiali adeguavano le pene alla gravità delle imputazioni, senza sottoporre necessariamente gli accusati alla lex Iulia de maiestate. È interessante ricordare a questo proposito che Gallione, proconsole dell'Acaia, si tirò fuori di fronte alle accuse mosse contro l'apostolo (cfr. Atti degli apostoli, 18, 14-15).
In terzo luogo ci sono le informazioni di 1 Clemente, v, 6, secondo cui Paolo fu «esiliato» (phygadeutheis) in un'occasione, e in un'altra fu «lapidato» (cfr. anche 2 Corinzi, 11, 25). Questa notizia coincide perfettamente con una delle pene a cui erano condannati quanti erano accusati di essere una minaccia, di maggiore o minore entità, per la stabilità dell'impero.
Nell'anno 62, terminato il biennio romano -- durante il quale Paolo potrebbe aver scritto la Lettera ai Filippesi -- la legge obbligava gli accusatori (prosecutores), in questo caso il Sinedrio di Gerusalemme, a presentarsi e a far pronunciare la sentenza contro l'apostolo. La sentenza fu l'esilio, ma non come per Archelao o Erode Antipa, che subirono la deportatio permanente nelle Gallie e in Hispania, con confisca dei beni e perdita del loro status politico. Paolo fu condannato a una relegatio mitigata, che consisteva in un esilio temporaneo fuori Roma -- e lontano dall'est dell'impero, da dove provenivano le accuse -- senza la perdita di beni e della sua condizione di cittadino romano, e con la possibilità di scegliere il luogo in cui vivere. È molto probabile che Paolo abbia scelto Tarraco. Ci troviamo nell'estate-autunno dell'anno 62.
La permanenza di Paolo a Tarragona sarebbe durata alcuni mesi o anni, tanti quanti indicava la sentenza del tribunale imperiale, ma la sua missione, svolta in condizioni di grande precarietà, dovette ottenere risultati molto limitati. L'apostolo tornò a Roma, dove fu costretto a presentarsi di nuovo dinanzi al tribunale imperiale -- il che non significa dinanzi a Nerone -- e questa volta sì, fu condannato a morte (cfr. 2 Timoteo, 4, 16-18).
Non conosciamo il verdetto, ma se dobbiamo aggiungere un altro biennio a quello romano, arriviamo all'estate-autunno del 64, nel periodo della terribile persecuzione di Nerone contro i cristiani romani (cfr. 1 Clemente, vi). Come ha spiegato Cook, lo status di cittadino romano di Paolo non significa necessariamente che sia stato decapitato, sebbene fosse questa la forma più comune di esecuzione dei cittadini romani. Il suo corpo, dal bosco di Aquas Salvias, luogo dell'esecuzione, fu portato nel cimitero sulla via Ostiense, dove, già a metà del ii secolo, era stato eretto un tropaeum che contrassegnava la tomba di Paolo apostolo e martire.

*Preside della Facoltà di Teologia della Catalogna (Barcellona)

(©L'Osservatore Romano - 17 luglio 2013)

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