Testi liturgici: Ap 7, 2-4.9-14; I Gv 3, 1-3; Mt 5, 1-12
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Una riflessione sulla prima lettura. Dopo la visione ricevuta da Giovanni, quella di “una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”, c’è stata una domanda: “Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?”.
La risposta è stata: “Sono quelli che provengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello”.
Le due espressioni di domanda e risposta ci invitano a mettere insieme, in parallelo, due termini: sofferenza e gloria.
Questa moltitudine immensa proviene da una grande tribolazione solo attraverso la quale si è potuta salvare. Si è salvata attraverso il sangue dell’Agnello, cioè attraverso il sacrificio del grande amore di Cristo, manifestato attraverso la croce.
Ma come è possibile che il sangue di Cristo renda candide le vesti dei suoi testimoni?
Questo non vuol dire che dobbiamo esaltare la sofferenza vista per se stessa, come fosse doveroso attaccarsi alle sofferenze, come a voler godere del dolore. Il Signore non ci ha creato per questo, ma per la gioia eterna.
Piuttosto il fatto ci spinge a chiederci: riconosco nella croce di Cristo tutto l’amore che Dio ha dimostrato nei nostri confronti?
È attraverso di essa, infatti, che Cristo ci ha dato possibilità di essere santi, nessuno escluso, perché è proprio questa la vocazione universale.
Ed allora, riusciamo a ringraziare il Signore per un amore così grande?
Siamo profondamente e realmente convinti che per tale motivo, essendo la santità richiesta a tutti, è possibile anche per noi, oggi?
Essa non consiste in altro se non nel vivere abbandonati alla volontà di Dio.
Analoghe conclusioni sono pure prospettate dalla seconda lettura la quale di invita a non perdere la speranza di riuscirvi.
È la speranza che ci invita a divenire ogni giorno più simili a Dio per vederlo come egli è. Se questo non è possibile viverlo totalmente in questo mondo, lo sarà pienamente nell’altra vita.
Pertanto questa speranza, essendo un dono da coltivare, ci fa porre un’altra domanda.
Viviamo forse nella rassegnazione più buia, chiusi in noi stessi, in una tristezza insuperabile, oppure lasciamo aperta la porta alla speranza, sempre in vista per ogni situazione in un cambiamento in meglio?
Anche il brano evangelico continua sulla stessa onda, dicendoci che, chi è santo, è anche beato.
Non occorre compiere azioni e opere straordinarie per esserlo, e neppure possedere carismi eccezionali.
È necessario, invece, ascoltare Gesù e poi seguirlo, senza perdersi d’animo di fronte alle difficoltà. Si tratta di vivere bene, con amore, nel proprio stato di vita. Anche la più piccola e insignificante cosa fatta bene ci santifica, anche quando non è considerata dagli altri.
Quale conseguenza ne viene da ciò, anche in questa terra?
Che, nonostante tutto, nonostante qualsiasi prova, siamo felici e contenti, proprio come ci ha descritto il vangelo, facendoci una elencazione di alcune beatitudini.
Però, sia chiara un’altra cosa: il Beato per eccellenza è solo Gesù.
È Lui, infatti, il vero povero, l’afflitto, il mite, l’affamato e assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l’operatore di pace.
Però noi, ascoltando e seguendo lui, ci assomiglieremo sempre più a lui ed entreremo nello spirito delle beatitudini, diventeremo veramente felici e beati.
La conseguenza di questo sarà che nella vita non ci lamenteremo, non imprecheremo, ma saremo portati solo a lodare e ringraziare il Signore per ogni situazione.
Sac. Cesare Ferri, rettore Santuario San Giuseppe in Spicello