Omelia delle domeniche e feste Anno C
"Vieni al Padre, fonte di Misericordia"
18 ottobre 2025 * S. Luca evangelista
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4 BeatitudiniTesti liturgici: Ger 1,4-5.17-19; Sl 70; I Cor 12,31 – 13,1-13; Lc 4,21-30
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“Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto”.
Il Signore non lo ha detto solo per il profeta Geremia, ma lo dice a ciascuno di noi.
Non sono forse, queste, parole consolanti e incoraggianti?
Ci vogliono proprio per ciascuno di noi quando, soprattutto, ci assale la tristezza e ci verrebbe da dire che Dio si è dimenticato di noi. No! Dio da sempre ha pensato a noi, ancor prima del nostro concepimento! Da sempre ci ha amato, si mantiene fedele, non ci tradisce mai.
Ma c’è di più: “Prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato”. La parola “consacrato” significa: “Sei legato a me, mi appartieni in maniera strettissima, come io appartengo strettamente a te”. Un motivo in più che ci dice come non possa abbandonarci!
Ma c’è ancor di più: “Ti ho stabilito profeta delle nazioni”. Ciò significa che il Signore ha bisogno di noi, per realizzare il suo disegno. Pertanto, abbiamo una missione da compiere. Allora, siamo veramente preziosi ai suoi occhi! Come può abbandonarci, se ha bisogno di noi?
Certo, ci vuole coraggio! Essere cristiani, comportarsi bene, fare il proprio dovere, mettere nel cuore il prossimo, svolgere una qualche forma di apostolato, tutto questo richiede coraggio.
Ed il Signore, ancora una volta, ci assicura il suo aiuto: “Faccio di te come una città fortificata, un muro di bronzo. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti”.
La stessa cosa e la stessa guerra capitano a Gesù. In un primo momento – come abbiamo ascoltato - si meravigliano delle parole di grazia che escono dalle sue labbra, nonostante che sia figlio di un povero operaio, di Giuseppe, il falegname. Gli battono, in un certo senso, le mani.
Ma dopo che Gesù ha detto che si starebbe ripetendo quanto in passato era capitato, cioè il loro rifiuto e la loro chiusura nei confronti di Dio; dopo aver detto che i lontani sarebbero passati loro avanti, esplodono di rabbia contro di lui: “All’udire queste cose, nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città, lo condussero sin sul ciglio del monte per gettarlo giù”.
Possiamo noi, per il fatto che siamo suoi discepoli, essere trattati in maniera diversa?
E allora, di fronte a situazioni analoghe, quale deve essere, in concreto, il nostro comportamento?
Quello ascoltato nella seconda lettura: continuare ad amare, tutti!
L’amore non è qualcosa di astratto ma è qualcosa di molto concreto, cosa che si traduce in atteggiamenti, ed è alla portata di tutti. Non si deve neppure pensare che vivere l’amore significhi fare cose complesse o difficili. Non si tratta di fare cose che diano occasione a farci, necessariamente, battere le mani ed averne così una riconoscenza: farebbe solo aumentare l’amor proprio e la superbia.
Invece, amare significa: avere pazienza e non adirarsi, non giudicare sempre in negativo e non fare maldicenze, essere benevoli e non condannare, sperare sempre nel ravvedimento, essere umili, sopportare con fede le avversità.
Allora, non c’è proprio bisogno di andare a cercare chissà quale opera da compiere, perché la vita di tutti i giorni è intrisa di tante situazioni in cui è proprio necessario mettere in pratica la carità.
Si tratta, allora, di valorizzare ogni istante della nostra vita: non importa quanto possa sembrare banale o inutile quello che facciamo, perché ogni situazione è utile per esercitarsi nell’amore concreto.
Con forza lo ha affermato Paolo: “Rimangono tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!”.
Sac. Cesare Ferri, Rettore Santuario San Giuseppe in Spicello

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davanti al Padre,

dal quale ogni paternità
nei cieli e sulla terra." (Ef. 3,14-15)

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