Esercizi Spirituali 2013 - Rilessioni dettate a famiglie
Con questa riflessione entriamo nello specifico della spiritualità paolina.
Don Alberione, all’inizio della sua vocazione e della sua opera, si è rifatto all’enciclica “Tametsi futura” di Leone XIII, con la quale il papa apriva il ventesimo secolo.
In essa si legge la seguente espressione: “Tutti quelli che si mettono fuori della diritta via vagano alla cieca e si allontanano dalla meta desiderata. Similmente se si rigetta la luce pura e sincera del vero, sottentrano perniciosi errori e inevitabilmente le tenebre oscureranno la mente e il cuore intristisce. Infatti che speranza di sanità può restare a chi abbandona il principio e la fonte della vita? Ora la via, la verità e la vita è soltanto Cristo, così che, abbandonato Cristo,vengono a mancare quei tre principi necessari per ogni salvezza”.
Don Alberione, dopo averla letta e profondamente meditata, ne ha ricevuto chiara luce nella notte dell’adorazione di fine e inizio secolo, cosa che lo ha orientato nella sua vocazione e per la futura missione.
Scriverà in seguito: “L’uomo è una proiezione meravigliosa della Trinità. Nella caduta di Adamo hanno concorso le tre facoltà - mente, volontà, cuore - che ebbero a subirne le conseguenze. Nella redenzione Gesù Cristo venne a ricreare l’uomo, a rifare la parte soprannaturale delle sue facoltà. Perciò Gesù Cristo è “Via e Verità e Vita”.
Vediamo alcune dinamiche.
Appena creato, la somiglianza dell’uomo con Dio consisteva nell’avere, come lui, mente e volontà e cuore, in modo perfettamente sano e in perfetta sintonia con lui, da cui la felicità goduta.
Adamo ed Eva erano “poveri”.
Vuol dire che per loro l’unica ricchezza era Dio e tutto il resto, loro affidato, era subordinato.
Erano “casti”.
Vuol dire che vivevano in modo retto la loro nudità. Essa era gestita non come fonte di ricerca egoistica, ma come dono reciproco.
Erano “obbedienti”.
Vivevano, cioè, in ascolto di Dio, gioiosi di fare quello che loro chiedeva, senza mettere il minimo dubbio che non fosse il proprio vero bene.
Ma arriva la tentazione del serpente. Acconsentendo alla tentazione, si ribellano a Dio e, cadendo nel peccato, ne esperimentano la immediata conseguenza per la loro vita: uno squilibrio, una dissonanza, una infelicità.
Il testo della Genesi, per far capire il tipo di ribellione a Dio, usa una immagine e così descrive l’episodio: “La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi, e desiderabile per acquistare saggezza, prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò”.
Attraverso tre espressioni, abbiamo la dinamica della tentazione che, acconsentita, li fa cadere nel peccato.
“Il frutto era buono da mangiare”.
E’ la tentazione che spinge a far scattare la tendenza per soddisfare le proprie voglie egoistiche. Si perde la capacità di dominarsi, si diventa schiavi degli istinti stessi e si cerca di soddisfali tutti, a cominciare da quello sessuale. E’ quello che Giovanni chiama la “concupiscenza della carne”.
“Gradito agli occhi”.
Scatta un’altra tentazione, quella dell’ avere e del possedere ad ogni costo, particolarmente in fatto di denaro e ricchezze. Con ciò non si è mai contenti di quello che si possiede, non basta mai, prevale la smania dell’avere e dell’avere sempre di più, spesso ottenuto anche disonestamente. E’ quella che Giovanni chiama la “concupiscenza degli occhi”.
“Desiderabile per acquistare saggezza”.
E’ la tentazione del voler essere autosufficienti, indipendenti ed autonomi nel decidere come gestirsi e sul cosa fare. E’ uno stile di vita che mette al centro il proprio interesse, il proprio “io” e che, inevitabilmente, sfocia nella smania del potere, del prevalere sugli altri, del comandare. E’ quella che Giovanni chiama la “superbia della vita”.
Adamo ed Eva, avendo acconsentito alla tentazione, rovinano la propria esistenza e quella dei discendenti con danni incalcolabili: è quello che chiamiamo il “peccato originale”.
L’uomo, da solo, non sarebbe stato in grado di riparare il danno subito, senza l’intervento di Dio, il quale, facendosi uno di noi, ha voluto ridare all’uomo la possibilità del riequilibrio. Questa intervento di Dio è come una “nuova creazione” o, come dice l’Alberione, una “nuova edizione” dell’uomo.
Quando Gesù afferma: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”, vuol farci entrare in questa verità e in questa dinamica.
Egli, come “Via”, risana la nostra volontà. Essa è portata ad assolutizzare i beni di questo mondo, con il rischio di considerarli più importanti di Dio. La virtù e il mezzo che aiuta a non essere schiavi delle cose, è la “povertà”. Ci aiuta a vincere la “concupiscenza degli occhi”, facendoci liberi dalle cose, contando, anzitutto, su Dio.
Gesù, come “Verità”, risana la mente, di modo che non abbia più a opporsi a Dio con il voler essere indipendente. La virtù che aiuta a vincere e a metterci in sintonia con lui, è “l’obbedienza”. E’ il mezzo per vincere la “superbia della vita”. Ci rende liberi per poterci accostare a Dio che vuole veramente il nostro bene.
Gesù, come “Vita”, risana il nostro cuore, che è tentato sempre a sviare dal vero amore, vissuto non come dono ma come possesso. La virtù che aiuta ad amare veramente, è la “castità”. Ci aiuta a vincere la “concupiscenza della carne”, facendoci veramente liberi e felici.
Ora ci domandiamo: le tre virtù citate sono un precetto o un consiglio?
Si è soliti fare una distinzione, applicandole ai semplici cristiani o ai religiosi. Non è pienamente esatto. Dobbiamo rifarci a Gesù che dice: “Non sono venuto ad abolire la legge, ma a perfezionarla”.
Se osserviamo la virtù limitandoci al solo livello di dovere, siamo nella osservanza della legge e del precetto; se lo facciamo anche con amore saliamo in un perfezionamento e siamo a quel livello che chiamiamo “consiglio”. Pertanto, anche il consiglio è suggerito a tutti i cristiani, se vogliono fare un cammino di perfezione.
Per i consacrati, chiamati a vivere il consiglio anche in forza della professione dei voti, c’è un ulteriore maggiore aiuto per essere più somiglianti a Dio. I voti, cioè, aiutano ad essere maggiormente liberi dalle tre concupiscenze.
Di qui, allora, la retta considerazione dei voti.
Essi non sono un “capestro”, o un “obbligo” in più, ma un “dono” di Dio che, per suo amore a noi concesso, facilita la somiglianza a lui.