Esercizi Spirituali 2015
Rilessione dettata a famiglie che il rettore Sac.Cesare Ferri ha svolto in San Giovanni Rotondo nei giorni 04-07 giugno
Seconda riflessione
CHI HA VISTO ME HA VISTO IL PADRE
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Premessa
Nella prima riflessione abbiamo ascoltato la risposta data da Gesù a Tommaso, il quale chiedeva di conoscere la via per giungere al Padre.
Ora è Filippo che domanda: “Mostraci il Padre e ci basta”.
La risposta di Gesù conferma quanto abbiamo pure meditato precedentemente, che cioè il Padre e il Figlio, pur essendo due persone, sono un Dio solo. Ecco, pertanto, la risposta di Gesù: “Chi ha visto me, ha visto il Padre. Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”.
Paternità di Dio
Dopo aver riflettuto sulla Trinità nell’insieme, in questa e nelle due successive riflessioni passiamo a riflettere sulle tre persone, singolarmente.
Cominciamo dal Padre.
Dobbiamo essere convinti che Dio è Padre ed è padre misericordioso. Non è giudice, non è padrone, non è carabiniere, non è distributore automatico di grazie da noi quasi pretese a seguito di alcuni nostri atteggiamenti e comportamenti.
Gesù, rispondendo, continua a ripetere più volte che è Padre; lo fa con affermazioni presentate in diverse modalità.
Tra l’altro dice: “Credete a me”.
Noi tutti diciamo di credere. Ma qual è la natura e lo spessore della nostra fede? Come l’applichiamo negli eventi della vita?
Ci sono tre gradi di fede, necessari tutti e tre, l’uno sovrapposto e legato all’altro: “Credo Dio, credo a Dio, credo in Dio”.
Credo Dio, cioè credo nella sua esistenza. Qui ci arrivano tutti, in un certo qual modo anche coloro che si dichiarano atei. Solo che, sbagliando obiettivo, adorano necessariamente altri dei. Ma tutti, alla fine dicono che “un supremo c’è!”.
Credo a Dio, cioè aderisco al suo insegnamento e, praticamente, non metto in dubbio nessuna verità di fede che egli mi rivela. Prescindendo da quelli che non conoscono la fede cristiana, anche fra i cristiani, purtroppo, c’è chi mette in dubbio alcune verità. Dicono: “Sarà che…!”.
Credo in Dio, cioè mi fido di lui, non metto in dubbio nessun suo comportamento perché non mi può ingannare. La percentuale di questo tipo, anche dei così detti credenti, diminuisce alquanto. Ed è proprio su questo argomento che Gesù, nel brano letto, scende in concreto.
Infatti, non dice: “Credete alle cose che vi ho detto”, ma: “Credete a me”.
Prima di credere a quello che uno dice, è necessario porre fiducia nella persona che parla. E’ fidarsi pienamente di essa, come detto, anche se a volte non si comprendono le parole ed il modo di agire.
Ecco le parole di Gesù: “Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me”.
Viene confermata l’unità delle persone: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”.
C’è poi un’altra espressione che mette a dura prova la nostra fede/fiducia/abbandono: “Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio”.
Si tratta del potere di intercessione nei suoi confronti, cosa che abbiamo in mano ed è un dono fattoci dal Signore. Siccome, però, non sempre si ottiene quello che si chiede (cosa che ad alcuni fa perdere la fede, dicono; ma che di fatto ne evidenzia la mancanza), dobbiamo cercarne i motivi.
Potrebbe dipendere da tre motivi.
Potrebbe esserci qualcosa che non funziona in noi; non c’è quella piena fiducia richiesta; non abbiamo la pazienza di attendere i tempi del Signore.
Potrebbe esserci qualche altra cosa che non funziona in noi, in quanto manca una sintonia. Non siamo in piena comunione col Padre celeste, oppure non lo siamo tra di noi. La mancanza di carità, chiude il canale di grazia.
Oppure, perché non sappiamo tener presente una cosa, che Dio non può rinunciare a volere il nostro vero bene. Se la nostra richiesta non è nel suo disegno, se non è per il nostro vero bene, Lui non ci ascolta. Non è distributore automatico di grazie, come abbiamo detto sopra.
A questo punto, allora, qualcuno potrebbe obiettare che è superfluo chiedere, tanto più quando ci riferiamo all’espressione di Gesù: “Il Padre sa di che cosa avete bisogno, ancor prima che glielo chiediate”.
Ma come può aiutarci se non gli porgiamo la mano, cioè se non chiediamo?
In terzo luogo, non dobbiamo dimenticare che davanti al Signore: “Un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno”. Si tratta di attendere con pazienza – come abbiamo già detto - e di non perdere mai la speranza.
Inoltre, dobbiamo chiarire subito un’altra cosa.
Chiamando Dio con il nome di padre, non significa che sia maschio. E’ semplicemente Dio. Come tale è la fonte di ciò che qualifica la mascolinità e la femminilità. La sua paternità (nel nominarlo ci limitiamo a questo termine) include anche la maternità, secondo l’accezione che le diamo noi.
Dobbiamo pure chiarire un’altra cosa, come detto in precedenza: non è né padrone, né investigatore; non è né giudice, né colui che infligge castighi. Purtroppo, in un recente passato, siamo stati educati con tale prospettiva!
Come intendere la sua paternità?
Gesù spiega tale prerogativa nella parabola degli operai mandati a lavorare nella vigna. In essa, il padrone della vigna, dà lo stesso compenso, sia a chi ha lavorato dal mattino, sia a chi lo abbia fatto solo per un’ora.
A prima vista, tutti saremmo del parere che è una ingiustizia. È vero! Ma questo solo dal punto di vista distributivo e sociale, secondo la nostra logica.
Allora, c’è da capire quale sia la finalità di questa parabola, come in genere quella delle altre parabole che Gesù racconta.
In ognuna di esse, bisogna fare sempre un passaggio dal fatto come è raccontato per arrivare al suo significato simbolico, che vuol portarci ad un altro fatto.
Tanto è vero che, in genere in ogni racconto parabolico, Gesù non usa il vocabolo:“è uguale”, ma quello di: “è simile”. In altre parole, bisogna essere capaci di salire ad un “di più” rispetto a quello che appare dal racconto.
Se la vigna, che si estende nei nostri terreni, appartiene ad un padrone, il Regno dei cieli, invece, appartiene a Dio. In questo regno siamo chiamati ad essere inseriti pure noi per operarvi.
Ora il Regno di Dio non ha padrone, ma ha un Padre. Quelli che sono chiamati e si trovano ad operare in esso, non sono operai e tanto meno schiavi, ma sono figli di tale Padre.
Dove sta la differenza?
A chi lavora da figlio non viene dato il salario, come all’operaio. Il figlio non ha bisogno di salario, perché tutto gli appartiene. Ha solo la ricompensa che consiste nella gioia di lavorare in famiglia e per la famiglia.
Ometto di sviluppare di più l’argomento: lo trovate ben descritto nel fascicolo che avete in mano.
A questo punto, però, facciamo riferimento al nostro Istituto.
Come ci sentiamo inseriti dentro? Analogamente all’operaio, oppure come figli chiamati dal Padre per collaborare assieme alla costruzione del suo Regno?
Capite allora come è fuori luogo e assurda l’espressione che ogni tanto serpeggia da parte di qualcuno. Lasciano l’Istituto perché – dicono – non ricevono più nulla da esso.
Noi non siamo nell’Istituto alla maniera dell’operaio che si aspetta la ricompensa. Se fossimo operai, è chiaro che, se si trovasse di meglio, si potrebbe cambiare datore di lavoro. Ma se siamo dentro, perché chiamati da Dio a lavorare nella sua vigna come figli, lasciandolo si perderebbe la ricchezza del dono ricevuto dal Padre celeste.
Non bisogna dimenticare, allora, che si è chiamati non solo per ricevere, alla maniera dell’operaio, ma anche per dare a modo di componenti della famiglia, in maniera che cresca la ricchezza di grazia per tutti. Se uno si chiude in sé, impoverisce; se invece si apre e si dona e collabora, si sente utile, è gioioso e si arricchisce.
Si tratta di rendersi conto che, cominciando col tralasciare gli incontri, non si riceve e neppure si dà – ognuno è dono per l’altro - per cui c’è un impoverimento di tutti, a cominciare da te stesso!
Si tratta di capire che il “non mi dà nulla” - cosa che spinge a lasciare - non dipende dal dono di Dio e neppure dagli altri componenti – sia pure con i loro limiti e le loro grettezze - ma diventa un’autoaccusa.
Dimostra che non ci si sente fratelli con gli altri, con a monte il non riconoscere Dio come Padre, che ha chiamato a collaborare nella sua vigna, come figli.
Fare esperienza della paternità di Dio
A questo punto diventa importante fare esperienza della paternità di Dio.
Per tale motivo diventa importante riflettere sul comportamento di Giuseppe l’ebreo, nel confronto dei fratelli che, per invidia, l’avevano venduto.
Non mi fermo a raccontare l’episodio, che tutti conosciamo. Andiamo al nocciolo che ci interessa.
Giuseppe non si vendica, anche se lo potrebbe sembrare a prima vista. Usa, invece, degli stratagemmi per ricreare la fraternità, legandola alla paternità di Giacobbe.
Potete leggere meglio nel fascicolo.
Mi fermo, invece, a fare altre considerazioni che aiutano a sentirsi fratelli e amarsi come fratelli, in relazione alla paternità di Dio.
Dobbiamo imparare da Lui a vendicarci. Dio è un padre che si vendica sempre.
Ma, attenzione, non vi scandalizzate! Non si vendica alla maniera nostra.
La sua vendetta è l’amore. Al nostro male, risponde sempre con il suo bene. Infatti, non può non amare, non sarebbe più Dio. Quindi, come più volte ripetuto, non castiga mai. Non manda nessuno all’inferno. Continua ad amare anche i dannati, purtroppo senza raggiungere l’obiettivo perché i dannati rifiutano il suo amore.
Questo fatto ci interpella e ci chiede di guardare nel profondo della nostra coscienza.
Come rispondiamo noi al male ricevuto?
Dio è un padre onnipotente, e la sua onnipotenza si manifesta soprattutto nella grazia del perdono.
Come mostriamo il nostro perdono a chi ci offende?
È innegabile che l’offesa porta sempre una ferita, cosa che a volte è molto difficile rimarginare e sanare. A parte il fattore psicologico, emotivo ed umano che opera anche contro la nostra volontà, di fatto la nostra volontà è retta e tale da imitare l’amore del Padre celeste?
Altro punto di riflessione. Dio cammina sempre con noi, ascolta sempre la nostra preghiera alle condizioni, però, come detto poc’anzi.
Noi, da parte nostra, siamo sempre in ascolto di lui?
Siamo anche in ascolto dei fratelli e disponibili alle loro necessità?
Ci spendiamo per i fratelli senza attendere il contraccambio, sempre a imitazione del Padre celeste che è gratuità nell’amore?