Riflessioni di don Ferri in esercizi
"Vieni al Padre, fonte di Misericordia"
13 ottobre 2024 * S. Edoardo re
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Lo storpioEsercizi Spirituali 2017
Rilessione dettata a famiglie dal rettore Sac. Cesare Ferri nel corso svolto a Roverè Veronese nei giorni 16-17 giugno 2017
3.ALZATI E CAMMINA - 
Nel nome di Gesù
(Testo base di riferimento At 3,1-15)
Per il documento: clicca qui

Premessa
Ricordo che in passato, nell’educazione cristiana ricevuta, eravamo esortati a rassegnarci. Del resto, quante volte abbiamo ascoltato da brave persone, quando ci trovavamo in situazioni di sofferenza, l’espressione: “Tanto! … Ormai non c’è più nulla da fare … Bisognerà rassegnarsi! ...”.
Questo non solo in situazioni malattie o di problemi fisici, ma anche quando non siamo considerati sufficientemente, non siamo stimati abbastanza, quando ci sembra di aver fallito la vita.
In tali situazioni ci blocchiamo moralmente e viviamo una vita triste, senza entusiasmo alcuno, appunto da “rassegnati”.

Anche lo storpio del brano ascoltato si era rassegnato, ormai senza speranza alcuna di poter uscire da quella infermità, condannato a chiedere ogni giorno l’elemosina allo scopo di sopravvivere.
Che fare quando i nostri desideri non si realizzano?
Capite! Non solo i desideri di star bene in questo mondo, ma anche e soprattutto i desideri spirituali di bene, per noi, per la famiglia e per gli altri.
Ci sono due modi per affrontare la situazione: o con la rassegnazione, come detto, oppure con l’accettazione.
La rassegnazione non è cosa buona e non è quindi una virtù cristiana, è solo una sconfitta.
Invece, l’accettazione è splendida. Diventa una vittoria!

Differenza tra rassegnazione e accettazione
Tra i due atteggiamenti c’è una grande differenza, anche se su un piano superficiale sembrano avere lo stesso peso.
Siamo rassegnati quando tutto viviamo senza speranza, quando tutto sembra impossibile. Con questo, non che il desiderio del meglio sia scomparso, però lo si vede irraggiungibile; anche subendo una sconfitta, non con questo è distrutto e sparito il desiderio del bene a cui si aspira. Esso rimane, ma resta una utopia.
Nel tal caso, la rassegnazione è una accettazione passiva; la conseguenza è che implica una continua tristezza e lamentela, diventiamo incapaci di affrontare gli eventi in maniera costruttiva.
Da dove deriva la rassegnazione?
La rassegnazione deriva, il più delle volte, da una mancata capacità di responsabilizzazione. La persona colpita tende ad attribuire agli altri le cause delle proprie disgrazie, senza prendere in considerazione che anche la più spiacevole situazione, se affrontata con saggezza e fermezza, può diventare occasione di crescita.
Al contrario e pertanto, in noi deve maturare l’accettazione; essa è una cosa totalmente diversa.
Con essa, siamo invitati ad accettare la situazione non subendola passivamente, ma affrontandola fiduciosamente nelle fede e nella speranza cristiana, sicuri di riuscire a cambiare qualcosa.
L’accettazione non significa subire la sconfitta. Significa che se ci poniamo, come detto, sul piano della fede, quello che sembrerebbe una sconfitta può trasformarsi, con la grazia del Signore, in un trampolino di lancio, in una vittoria.
Al contrario, se siamo rassegnati il Signore non potrà intervenire, non riuscirà a trasformare il fatto in occasione di grazia.
Con l’accettazione, invece, le cose cominciano a cambiare, in quanto usciamo dal nostro guscio e ci apriamo ad accogliere l’intervento di Dio. Con l’accettazione, sempre per grazia di Dio, può arrivare la trasformazione.
Non si tratta di sopportare tutto in modo debole e in maniera passiva, ma piuttosto si tratta di osservare la realtà delle cose, predisporci ad affrontarle, pronti a lottare per le stesse.
Con l’accettazione riusciamo ad accogliere gli eventi spiacevoli non accettandoli passivamente, bensì tentando di elaborarli e trasformarli in un’occasione di crescita.
La sofferenza a volte, se la sappiamo accogliere, può darci le più importanti e preziose lezioni di vita, perché ci impone di superare i nostri limiti, di gettare il cuore oltre gli ostacoli che incontriamo.
Solo così, possiamo esperimentare l’espressione di Paolo: “Tutto concorre al bene per coloro che Dio ama”.

Lo storpio guarito
Ed ecco l’episodio illuminante dello storpio guarito, da vedersi nel contesto nel quale avviene, ed attraverso il quale tutti noi siamo invitati ad essere guariti dalle storpiature spirituali e morali, dai nostri distorti modi di pensare e di comportarci.
Vogliamo riflettere sul medesimo.
Esso si inserisce in un contesto di preghiera, proprio mentre Pietro e Giovanni si recano al tempio a pregare. Questo ci insegna che possiamo guarire dalle accettate storpiature se viviamo di preghiera; con questo, ovviamente, si intende lo “spirito di preghiera” e non solo le varie formule e la quantità delle pratiche di pietà.
Anche la prima comunità cristiana doveva guarire dal suo legame al tempio e alle usanze giudaiche, non pienamente legittimo.
Ci riuscirà di mano in mano, fino ad avere momenti celebrativi e di preghiera tutti propri.
In questo contesto, la situazione dello storpio rappresenta bene la condizione in cui vive il popolo ebraico. È l’uomo della soglia, senza la possibilità di varcarla; è storpio dalla nascita, senza possibilità di cambiare; ha l’età di 40 anni, come a voler richiamare il popolo ebreo pellegrinante nel deserto, senza una piena, consapevole e chiara meta da raggiungere, e quindi in uno stato di rassegnazione, tanto è vero che presentano una continua lamentela contro Mosè, che li ha fatti uscire dall’Egitto.
Lo storpio, come il popolo di Israele ed anche come noi tutti, ha bisogno di Gesù per entrare in contatto col Padre, per entrare nel tempio nuovo, saltando e lodando Dio.
Dio gli va incontro attraverso gli apostoli Pietro e Giovanni.
Dio viene incontro a noi attraverso la sua Parola, nel dono del Figlio presente nell’Eucarestia e negli altri sacramenti. Dio non vuol concederci una semplice elemosina per un giorno, ma ci risana integralmente e per sempre, proprio per farci diventare e restare santi.
Come avviene il miracolo?
Il miracolo avviene con la preparazione dello sguardo: i due apostoli fissano lo storpio quasi a comunicare la guarigione con lo sguardo, prima che con le parole.
Con tale gesto è messa in luce l’importanza dello sguardo di compassione, necessario per entrare in comunione e poter così risanare, comunicando la potenza di Cristo.
E’ lo sguardo di Gesù che risana attraverso lo sguardo degli apostoli. Ricordiamo altri sguardi tipici di Gesù nel Vangelo.
Al giovane ricco: “Fissatolo, lo amò”. Nella passione: “Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro… che uscito fuori pianse amaramente”.
Il miracolo avviene non per la fede dello storpio, il quale non è capace di chiedere altro se non l’elemosina, ma per la fede dei due apostoli.
Si pensi anche all’episodio della guarigione del paralitico portato e calato dal tetto per opera di un gruppo di persone.
Pertanto, il centro focale dell’episodio è la fede e la potenza del nome di Gesù e non il potere personale degli apostoli.
L’affermazione “nel nome di Gesù” significa, appunto, che Pietro non opera in prima persona, ma lascia che Gesù stesso operi servendosi di lui, come strumento. Dopo di che, Pietro deve scomparire.
Vale anche per noi. Dopo aver fatto la nostra parte, dobbiamo sparire; altrimenti lo Spirito non può elaborare il disegno di Dio. L’eccessiva presenza e insistenza non è il pieno rispetto dell’altro.
È quanto indicava pure il beato Alberione. Anch’egli si riconosceva un semplice strumento nelle mani di Dio, solo uno strumento, tanto da definirsi una “inutile carcassa”.
Proprio l’espressione di Pietro ispirò don Alberione, a scrivere così ai Cooperatori, nel 1925: “Se tu scrivi, il tuo scritto non mi dà senso se non vi leggo il nome di Gesù; se tu parli o discorri o predichi le tue parole non mi danno senso se io non vi sento il nome di Gesù”.
E successivamente, nel 1936, inviava agli stessi Cooperatori questi auguri: “Sono uomo: carico di debiti verso Dio e verso gli uomini! Ed in questa occasione la lista dei debiti si è ancora allungata. Ma ne ho anche pagati… Poiché io non ho né oro, né argento, ma vi dono di quello che ho: Gesù Cristo, Via, Verità, vita”.
Più tardi ed analogamente, anche don Primo Mazzolari scriverà ai suoi studenti: “Non ho né oro né argento, né intelligenza tanta per farvi sapienti. Altri vi insegneranno a farvi ricchi, a guadagnare soldi, a regolare i vostri affari, a organizzare le vostre giornate… Questo non è il mio compito. Io sono qui per insegnarvi a diventare buoni, in nome di Gesù Cristo e a diventare buono insieme a voi. La mia religione non ha altro da darvi. Aggiungo con orgoglio: nessuno vi potrebbe dare di meglio!”.
Il miracolo è compiuto insieme dai due apostoli, segno evidente della necessaria armonia e comunione interpersonale, anche se è solo Pietro che parla e agisce. Prende l’uomo per la mano destra e lo solleva.
Luca, poi, descrive i movimenti quasi liturgici che compie il guarito con tre verbi che indicano le azioni del popolo risanato da Cristo: “Entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio”.
Come è importante che nella preghiera non manchi mai la lode, per riconoscere quanto il Signore ci ama!

Quello che dice l’Amoris laetitia

Gesù, quella volta, aveva inaugurato l’era messianica. Ora continua attraverso gli apostoli e, volendolo applicare in questo momento a noi, attraverso anche la vocazione e missione nell’ISF.
Ho iniziato la riflessione prospettando il confronto tra rassegnazione e accettazione.
Questo vale quanto mai nella vita coniugale e familiare con tre atteggiamenti e comportamenti, dei quali solo l’ultimo consono.
Il primo. Rassegnarsi ad avere un marito o una moglie e dei figli che non sono come ci aspetteremmo.
Il secondo. Scegliere l’opposto con una separazione per poter avere la conseguenza di costruire, come si è soliti dire, una nuova vita.
Terzo. Accettare di rimanere a convivere nella situazione, proprio per poterla cambiare con la grazia di Dio, a modo di fermento, dal di dentro.
Se ci credessimo, se lottassimo per questa ultima soluzione, avremo la possibilità di esperimentare miracoli.
Ed è proprio a tal proposito che ci viene incontro l’Amoris laetitia al n. 221: “Una delle cause che portano alla rottura dei matrimoni è avere aspettative troppo alte riguardo alla vita coniugale.
Quando si scopre la realtà, più limitata e problematica di quella che si era sognata, la soluzione non è pensare rapidamente e irresponsabilmente alla separazione, ma assumere il matrimonio come un cammino di maturazione, in cui ognuno dei coniugi è uno strumento di Dio per far crescere l’altro.
È possibile il cambiamento, la crescita, lo sviluppo delle buone potenzialità che ognuno porta in sé.
Ogni matrimonio è una “storia di salvezza”, e questo suppone che si parta da una fragilità che, grazie al dono di Dio e a una risposta creativa e generosa, via via lascia spazio a una realtà sempre più solida e preziosa.
La missione forse più grande di un uomo e una donna nell’amore è questa: rendersi a vicenda più uomo e più donna. Far crescere e aiutare l’altro a modellarsi nella sua propria identità”.
Questo vale per tutti. Però nell’ISF, in forza dei voti, vi si trova una “grazia in più”.
Se sappiamo corrispondere a quello che ci chiede il Signore, accogliendo in pienezza la relativa grazia, otterremo miracoli.

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"... io piego le ginocchia
davanti al Padre,

dal quale ogni paternità
nei cieli e sulla terra." (Ef. 3,14-15)

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