
Relazioni nuove per una pienezza di vita
(Testo base: Fm 1-5.8-21.25)
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Continuano le riflessioni sui diversi tipi di relazione.
Il tema di oggi è: “Relazioni nuove per una pienezza di vita”.
La relazione “nuova” e, possiamo intendere anche nel senso di “rinnovata”, è tra le più difficile a mettere in pratica.
Cosa intendiamo dire e come esercitarla?
Condotti dal brano ascoltato, la consideriamo su due versanti uniti fra loro: quello di non sentirsi superiori agli altri; quella di amare il nemico e coloro che ci fanno del male.
Filemone è un ricco signore, convertito da Paolo con tutta la famiglia; proprio perché padrone e ricco, ha sotto di sé alcuni schiavi; uno di questi, Onesimo, dopo averlo derubato, fugge a Roma.
L’episodio diventa eloquente per dire quanto sia difficile vivere sotto padrone che, come era in quei tempi, vanta ogni diritto sullo schiavo, anche quello di vita e di morte. Pensiamo alle analoghe situazioni di oggi in cui tanti profughi fuggono dalla loro patria, anche a rischio di morte!
Ebbene, a seguito dell’accaduto e in qualche modo, Onesimo diventa per Filemone un nemico, tanto da correre il rischio di non potersi fare perdonare.
A Roma, in maniera provvidenziale, egli incontra Paolo e, conversando con lui, diventa cristiano.
Da questo momento, Paolo ha due figli spirituali, in relazione l’uno all’altro: Filemone, da una parte; e Onesimo, dall’altra.
Con questa brevissima lettera, inviata a Filemone, tenta di costruire una relazione nuova fra i due.
Paolo sa bene che la schiavitù non è nell’ottica cristiana. Però Paolo non sogna una rivoluzione sociale per infrangere le catene della schiavitù con tutte le conseguenze annesse, ma intende sradicarla pacificamente, sperando di riuscirvi proprio in nome della fede cristiana.
Pertanto, insegna a Filemone che ora, essendo divenuto cristiano anche Onesimo, non può essere più suo schiavo, ma fratello da accogliere ed amare come tale.
Questo a maggior motivo per il nome che porta. Infatti, se si considera il significato etimologico del nome Onesimo, esso vuol dire “utile”. Se, di fatto, era divenuto inutile in quanto schiavo, irraggiungibile per la fuga e dannoso per il furto, ora arriva il momento di diventare utile.
Per applicare la riflessione a noi stessi, inseriamoci nelle loro figure, in quella più a noi confacente, allo scopo trovare il modo di creare nuove relazioni nella nostra vita.
Mettiamoci nella veste di Filemone.
Chi di noi non ha che fare con persone, che in un recente passato potrebbero essere state molto amiche, ma che ad un certo punto diventano nemiche? Anche se, a prima vista, non sembrano rubarci qualcosa!
Ma, a rifletterci ancora, è proprio vero che non ci rubano niente?
Quando sparlano e dicono male di noi, non ci rubano la stima presso altri?
Quando, incontrandoli, si girano dall’altra parte, non ci rubano il diritto di mettere in evidenza la nostra carità verso di loro?
Quando si comportano in maniera farisaica, cioè quando in apparenza si mostrano amici, ma di fatto non lo sono in quanto manca in loro il vero amore; tutto fanno per secondi fini e per il proprio vantaggio, non sono dei traditori e fuggiaschi?
E quando, o per curiosità o per semplice fatto, ascoltano ed osservano, non per imparare e per aiutare, ma per avere di che da ridire, non è una forma di ladrocinio e denigrazione?
È possibile in questi casi creare una relazione nuova?
Mettiamoci nella veste di Onesimo
Non ci troviamo a volte in un complesso di inferiorità, o perché non considerati e non stimati a sufficienza, o perché condizionati dalla superiorità di qualcuno che vuol sempre ragione?
Quante volte dobbiamo riscontrarci con poca o nessuna riconoscenza per quello che facciamo?
Quante volte siamo mal giudicati, tanto da doverci come nascondere alla vista degli altri?
Quante volte, pur chiedendo scusa per qualche nostra manchevolezza, non siamo sinceramente capiti né perdonati?
È possibile in questi casi creare una relazione nuova?
Come affrontare e superare situazioni analoghe
Se contiamo solo sulle nostre capacità umane, in qualsiasi situazione, siamo falliti in partenza, col rischio che la distanza e il fossato aumentino.
È necessario, allora, non dimenticare un aspetto importante del nostro segreto di riuscita, trasmessoci con il patto intercorso fra il Maestro divino e don Alberione. Sappiamo che esso non fa altro che ricalcare il Vangelo e l’insegnamento di Paolo: “Da me non posso nulla, con Dio posso tutto”; e Paolo: “Quando sono debole, è allora che sono forte”.
Se non c’è l’intervento essenziale dello Spirito Santo, rimaniamo senza esito positivo.
Ebbene, proprio dal brano ascoltato, impariamo lo stile che ha usato Paolo per aiutare a creare una nuova relazione fra i due che, diciamolo pure, erano divenuti “nemici”.
Paolo, innanzitutto, riconosce il suo “niente”; si presenta, infatti, con la qualifica di “Prigioniero di Cristo Gesù”.
Poi, non si rivolge a Filemone con l’autorità, che pur gli competerebbe, ma vuole raggiungerlo con i vincoli dell’amore, come ha fatto il Signore con lui sulla via di Damasco. Ed ecco le sue parole precise: “Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità”.
Guai a sentirsi migliori degli altri e, per tale convinzione, intervenire con autorità!
Lo stesso pensiero e comportamento lo aveva esercitato anche verso i Corinzi. Nella prima lettera aveva detto in proposito: “Io venni a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza”.
Allora, lo ripeto, è solo lo Spirito che opera, non però senza la nostra parte attiva di collaborazione.
Pertanto, perché lo Spirito possa agire, da parte nostra si tratta di vedere negli altri i lati positivi, che non mancano a nessuno, piuttosto che quelli negativi i quali, a loro volta, concorrono ad aumentare le distanze.
Ecco, a tale proposito, l’elogio di Paolo: “Sento parlare della tua carità per gli altri e della fede che hai nel Signore Gesù e verso tutti i santi”.
Non è solo segno di delicatezza e tanto meno parole dette per accaparrarsi la benevolenza; no, è la stima sincera che Paolo nutre per questo suo figlio spirituale; manifesta, inoltre, che egli ha profonda “consolazione” e grande “gioia” per le notizie da lui ricevute.
In altre parole, Paolo vive quella santa emulazione a cui aveva invitato i romani: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda”.
Purtroppo e spesso, la nostra gara è invertita; diventa spesso invidia, gareggiando così nel non stimarsi a vicenda, criticandosi vicendevolmente.
Non tutti i mali vengono per nuocere
Sappiamo, almeno a livello di intelletto, che il Signore sa trarre fuori il bene anche dal male. Del resto, in proposito, c’è anche un detto umano che dice: “Non tutti i mali vengono per nuocere”.
Nel caso concreto, è fuori dubbio che Onesimo si sia comportato male.
Eppure Paolo giunge perfino a giustificare la sua fuga e, in certo senso, il suo furto, con queste parole: “Forse per questo è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre”.
Se, a livello di fede, imparassimo a riconoscere sul serio che è il Signore a condurre la storia, nonostante che noi spesso gli “mettiamo il bastone fra le ruote”!
Se credessimo sul serio che le vie del Signore non sono le nostre vie, e che mille anni davanti a lui sono come un giorno solo!
È proprio vero che il Signore scrive bene e diritto anche sulle righe storte!
Il posto che occupano la docilità e l’obbedienza
Se in un primo momento, come detto, Paolo aveva asserito di non usare la sua autorità, alla fine sembra contraddirsi con l’espressione: “Ti scrivo, fiducioso nella tua docilità”.
È una espressione dolce, ma che, a pensarci bene, vorrebbe dire: “Ti scrivo e ti ordino, con la mia autorità, che tu mi obbedisca”.
A questo punto, tutto sta nel comprendere il significato, il valore e la finalità dell’obbedienza.
Si comprende considerando l’etimologia del verbo “obbedire” (“ob-audire”), cioè “porgere l’orecchio per ascoltare”.
A chi porgere l’orecchio?
Solo a Colui che ci è modello in proposito. Egli è Gesù Cristo, che ha fatto perfettamente la volontà del Padre, diventando modello di ogni obbedienza.
Pertanto, l’obbedienza non sta principalmente nell’eseguire l’ordine di qualcuno, anche se, come diremo, questo ci vuole ed entra nell’ordine dell’obbedienza.
Cosa dice, in proposito, lo Statuto dell’Istituto Santa Famiglia?
Recita così: “La nostra obbedienza ha come fine l'attuazione della dottrina di Gesù che, «assumendo la condizione di servo», venne tra gli uomini per insegnare loro a fare con amore – non quindi con rassegnazione - la volontà del Padre e così divenire suoi figli adottivi”.
«Senza l'amore – afferma don Alberione - la sottomissione è un fiore senza profumo».
“L'obbedienza, per fare pervenire al suo pieno sviluppo la personalità dei membri - continua lo Statuto - richiede che essi vivano in una dimensione di profonda libertà interiore, scevra da ogni forma di fariseismo e di giudizio superficiale, per essere sempre disponibili alle esigenze della vita secondo lo Spirito”.
Pertanto, l’obbedienza essenzialmente è: ascoltare la Parola di Dio, accoglierla, e metterla in pratica: questo è fare la volontà di Dio.
La volontà di Dio, a volte, si manifesta anche attraverso il parere, il suggerimento, il consiglio o la richiesta di qualcuno che il Signore ha messo al nostro fianco per il nostro bene; fra questi, soprattutto, coloro che esercitano il servizio di autorità.
Nella vita coniugale, la volontà di Dio passa anche attraverso il vicendevole e disinteressato confronto e parere tra marito e moglie; serve per capire il comportamento da tenere nelle diverse situazioni da affrontare.