
La Carità è la via unica per vere relazioni
(Testo di riferimento: I Cor 12,31; 13,1-8.13)
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Introduzione
Se durante l’anno abbiamo riflettuto sui diversi modi per avere buone relazioni, oggi tutto quanto abbiamo viene riassunto nell’unico modo, che è quello di possedere e vivere nella carità.
Il testo ascoltato è introdotto dall’espressione: “Desiderate i carismi più grandi”.
Cosa succedeva ai Corinzi quella volta, cosa potrebbe succedere a noi oggi?
L’intervento di Paolo è dato dal fatto che i Corinzi erano tentati di andare alla ricerca di qualcosa di sensazionale, cioè alla ricerca di carismi. La stessa cosa potrebbe capitare a noi: la ricerca, appunto, del sensazionale. Sappiamo come diverse persone corrono in luoghi di preghiera dove si manifestano forme di carismi.
Vediamo di mettere in chiaro alcuni aspetti.
Tutti noi, in maniera diversa e chi più chi meno, abbiamo doni personali concessi da Dio che, se a loro volta hanno un carattere particolare, chiamiamo “carismi”.
In versetti precedenti, Paolo li descriveva così: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; ad un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di fare guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere di miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Tutte queste cose è l’unico e medesimo Spirito che le opera, distribuendo a ciascuno come vuole”.
Lo scopo dei carismi
Nella citata descrizione di Paolo ci sono da annotare alcune cose.
Essendo tutti “doni dello Spirito” e concessi “per l’utilità comune”, guai ad appropriarsene per un vantaggio personale, o per vana gloria, o per interesse, come se fossero merito o bravura propria ed utili a noi!
Con ciò, allora, si cade nelle grinfie di Satana, usandoli, purtroppo, non più a beneficio ma a maleficio degli altri.
Qual’é lo scopo dei doni concessi?
Vediamone alcuni.
Il dono della “sapienza” e della “scienza” riguarda un competente ed efficace insegnamento della verità e della morale cristiana. Queste penetrano facilmente nello cuore di chi ascolta, tanto da farsi ascoltare volentieri.
Il dono della “fede” è la ferma fiducia nella onnipotenza di Dio per cui, trovandosi in situazioni difficili, si vive nella profonda convinzione che “tutto è possibile a Dio”. Questa è la fede che ottiene miracoli.
Il dono della “profezia” è relativo ad un discorso di esortazione, di edificazione e di conforto. Attraverso il collegato dono di discernimento, si ha la capacità di illuminare e guidare le anime.
Il dono di “distinguere gli spiriti” consente di discernere la vera origine e natura dei carismi; se veramente provengono dallo Spirito e utilizzati per il loro fine, oppure provengono da dubbie origini.
Il dono della “varietà delle lingue” o, come si dice, il “parlare in lingue”, riguarda una certa maniera di modulare la voce, a modo di linguaggio estatico. Successivamente Paolo descriverà che con il dono delle lingue non si parla agli uomini, ma a Dio; appunto, perché nessuno ne comprende il significato, anche se la persona che pronuncia per ispirazione, dice cose vere, seppure misteriose.
Il dono della “interpretazione delle lingue” riguarda colui che interpreta e da una decifrazione su quanto pronunciato con il dono delle lingue.
Dunque, questi e altri, sono tutti doni di Dio; utili, se usati in positivo; maléfici, se usati in negativo.
Come conclude Paolo?
Egli dice che la santità della persona non consiste nell’avere i carismi, ammesso pure che siano utilizzati per il bene, ma nell’avere e nel seguire la “via più sublime”.
Ed ecco l’inno alla carità, su cui ci accingiamo a riflettere.
Inno alla carità
Paolo afferma subito che, se nell’esercizio dei carismi manca la carità, essi non valgono nulla.
Allora, facciamo un confronto riflessivo.
Il dono della “sapienza” e della “scienza”.
Consiste, come sopra detto, nel possedere l’eloquenza, nel saper parlare, nell’essere ascoltati volentieri. Però, senza vivere la carità, potrebbe divenire solo “seminagione di pula”.
Quante parole si dicono, senza riscontrare un vantaggio per se stessi e senza raccogliere frutti adeguati di conversione dagli altri!
Il dono della “fede”.
È il mezzo attuale per avvicinarsi a Dio, ma il mezzo vale meno del fine, tanto è vero che, nell’altra vita, rimane solo la carità.
Il dono della “beneficienza”.
È una parte della carità, ma anche qui il tutto vale più della parte. Purtroppo, spesso la beneficenza è solo opera umanitaria, cosa che si presenta quanto mai limitata per estendere il regno di Dio; come pure la stessa cosa vale per tanti sacrifici che si affrontano, sino a giungere a quello del martirio, che non ha valore se non è subito per la testimonianza cristiana.
A questo punto mi sembra interessante un brano tratto dall’«Autobiografia» di Santa Teresa di Gesù Bambino.
Essa dice: “Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ritrovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall’amore. Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che l’amore è eterno.
Allora con somma gioia ed estasi dell’animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio.
Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà.”
Analisi della carità
Facciamo ora, sempre seguendo il testo di San Paolo, un’analisi di alcune caratteristiche della carità.
La carità è “magnanima”, cioè ha un cuore grande.
Ha la capacità di stare al di sopra del male e dei torti ricevuti. Sa accostarsi facilmente a gente sospettosa, tanto da farsi acquistare la fiducia. Infatti, in un’atmosfera di sospetto, la gente si chiude, mentre in un’atmosfera di fiducia si espande, si sente incoraggiata e viene educata alla vita sociale.
La carità è “benigna”, cioè benevola.
È una benignità attiva nel senso che fa il bene, ma anche interpreta in bene. Siamo, infatti, chiamati a rendere felice la gente, volendo e facendo per loro il bene. C’è differenza tra far piacere e rendere felici.
Se la carità è benevola, vede e sottolinea il lato positivo. Non vuol vedere la mala fede, vuole sempre scusare. Pertanto, vuol pensare sempre bene di tutti, cerca di interpretare in bene le azioni del prossimo.
La carità non è “invidiosa”, ma è generosa.
È quella di chi si sente in gara con altri, ma che gode nel sapere che è più bravo e vince l’altro. È essere contenti del bene, da qualsiasi parte provenga.
È auspicabile coltivare la così detta “santa invidia”, cioè il desiderio di assomigliare nel bene all’altro, ma non riuscendovi sia lontano da sé ogni astio o sentimento di detrazione.
La carità “non si vanta e non si gonfia d’orgoglio”, ma è umile.
L’umiltà non nega i doni ricevuti, anche davanti agli altri, ma neppure se ne vanta come se fossero meriti propri. Dopo aver fatto il bene attraverso i doni ricevuti, si rientra nell’ombra ed è preferibile non dire nulla di quanto è avvenuto, se non per lodare Dio, alla maniera di Maria che ha cantato “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”, e non, quindi, alla maniera del fariseo.
L’umiltà è anche dipendere dagli altri, nel senso che riconosciamo di aver bisogno di luce, di aiuto, di conforto; questo a cominciare vicendevolmente nell’ambito della coppia.
Ovviamente l’aiuto viene chiesto con delicata sincerità, al momento opportuno, con piena fiducia, senza rinfacciare difetti o mancanze.
La carità “non manca di rispetto”, cioè non è sconveniente.
È l’umana educazione e gentilezza, è il galateo portato a livello di carità.
È l’attenzione alle minime parole, ai minimi bisogni e ai minimi desideri dell’altro, per soddisfarli.
È l’attenzione anche ai minimi nostri sbagli, volontari o involontari, per chiedere scusa e per impegnarsi al meglio.
È l’attenzione a non essere ficcanasi, curiosi, pesanti, invadenti.
Anche qui c’è un cammino. Tutti questi aspetti si acquistano di mano in mano che si progredisce nella vita spirituale.
La carità “non si adira”, cioè non si irrita, ma è sempre dolce.
Il malumore, infatti, è l’elemento più distruttivo dei rapporti umani. Quando c’è un vizio nelle persone, sia pure fondamentalmente virtuose, questo è l’amarezza.
Molti sarebbero del tutto perfetti se non fosse per questa tendenza ad essere facilmente rannuvolati, impulsivi, suscettibili.
La carità “non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità”, cioè è sincera.
La verità, per colui che ama, sarà oggetto di amore non meno che il prossimo. Altrove Paolo dice di “amare nella verità”.
Pertanto, andrà in cerca della verità con umiltà di spirito, senza pregiudizi; amerà quello che avrà scoperto, a costo di qualsiasi sacrificio.
Accetta di vedere le cose come sono, ma si rallegra se le trova migliori di quanto il sospetto avesse lasciato temere e la calunnia avesse insinuato.
Conclusione
Concludo citando una espressione del Beato Alberione: “La carità non richiede di non avere alcun pensiero personale, o l’obbligo di accettare sempre le idee altrui, ma essa produce insensibilmente una larga conformità di vedute, di sentimenti e di mire; è la formazione che avvicina sempre più le opinioni”.
Vediamo di mettere in chiaro alcuni aspetti.
Tutti noi, in maniera diversa e chi più chi meno, abbiamo doni personali concessi da Dio che, se a loro volta hanno un carattere particolare, chiamiamo “carismi”.
In versetti precedenti, Paolo li descriveva così: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; ad un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di fare guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere di miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Tutte queste cose è l’unico e medesimo Spirito che le opera, distribuendo a ciascuno come vuole”.
Lo scopo dei carismi
Nella citata descrizione di Paolo ci sono da annotare alcune cose.
Essendo tutti “doni dello Spirito” e concessi “per l’utilità comune”, guai ad appropriarsene per un vantaggio personale, o per vana gloria, o per interesse, come se fossero merito o bravura propria ed utili a noi!
Con ciò, allora, si cade nelle grinfie di Satana, usandoli, purtroppo, non più a beneficio ma a maleficio degli altri.
Qual’é lo scopo dei doni concessi?
Vediamone alcuni.
Il dono della “sapienza” e della “scienza” riguarda un competente ed efficace insegnamento della verità e della morale cristiana. Queste penetrano facilmente nello cuore di chi ascolta, tanto da farsi ascoltare volentieri.
Il dono della “fede” è la ferma fiducia nella onnipotenza di Dio per cui, trovandosi in situazioni difficili, si vive nella profonda convinzione che “tutto è possibile a Dio”. Questa è la fede che ottiene miracoli.
Il dono della “profezia” è relativo ad un discorso di esortazione, di edificazione e di conforto. Attraverso il collegato dono di discernimento, si ha la capacità di illuminare e guidare le anime.
Il dono di “distinguere gli spiriti” consente di discernere la vera origine e natura dei carismi; se veramente provengono dallo Spirito e utilizzati per il loro fine, oppure provengono da dubbie origini.
Il dono della “varietà delle lingue” o, come si dice, il “parlare in lingue”, riguarda una certa maniera di modulare la voce, a modo di linguaggio estatico. Successivamente Paolo descriverà che con il dono delle lingue non si parla agli uomini, ma a Dio; appunto, perché nessuno ne comprende il significato, anche se la persona che pronuncia per ispirazione, dice cose vere, seppure misteriose.
Il dono della “interpretazione delle lingue” riguarda colui che interpreta e da una decifrazione su quanto pronunciato con il dono delle lingue.
Dunque, questi e altri, sono tutti doni di Dio; utili, se usati in positivo; maléfici, se usati in negativo.
Come conclude Paolo?
Egli dice che la santità della persona non consiste nell’avere i carismi, ammesso pure che siano utilizzati per il bene, ma nell’avere e nel seguire la “via più sublime”.
Ed ecco l’inno alla carità, su cui ci accingiamo a riflettere.
Inno alla carità
Paolo afferma subito che, se nell’esercizio dei carismi manca la carità, essi non valgono nulla.
Allora, facciamo un confronto riflessivo.
Il dono della “sapienza” e della “scienza”.
Consiste, come sopra detto, nel possedere l’eloquenza, nel saper parlare, nell’essere ascoltati volentieri. Però, senza vivere la carità, potrebbe divenire solo “seminagione di pula”.
Quante parole si dicono, senza riscontrare un vantaggio per se stessi e senza raccogliere frutti adeguati di conversione dagli altri!
Il dono della “fede”.
È il mezzo attuale per avvicinarsi a Dio, ma il mezzo vale meno del fine, tanto è vero che, nell’altra vita, rimane solo la carità.
Il dono della “beneficienza”.
È una parte della carità, ma anche qui il tutto vale più della parte. Purtroppo, spesso la beneficenza è solo opera umanitaria, cosa che si presenta quanto mai limitata per estendere il regno di Dio; come pure la stessa cosa vale per tanti sacrifici che si affrontano, sino a giungere a quello del martirio, che non ha valore se non è subito per la testimonianza cristiana.
A questo punto mi sembra interessante un brano tratto dall’«Autobiografia» di Santa Teresa di Gesù Bambino.
Essa dice: “Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ritrovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall’amore. Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che l’amore è eterno.
Allora con somma gioia ed estasi dell’animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio.
Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà.”
Analisi della carità
Facciamo ora, sempre seguendo il testo di San Paolo, un’analisi di alcune caratteristiche della carità.
La carità è “magnanima”, cioè ha un cuore grande.
Ha la capacità di stare al di sopra del male e dei torti ricevuti. Sa accostarsi facilmente a gente sospettosa, tanto da farsi acquistare la fiducia. Infatti, in un’atmosfera di sospetto, la gente si chiude, mentre in un’atmosfera di fiducia si espande, si sente incoraggiata e viene educata alla vita sociale.
La carità è “benigna”, cioè benevola.
È una benignità attiva nel senso che fa il bene, ma anche interpreta in bene. Siamo, infatti, chiamati a rendere felice la gente, volendo e facendo per loro il bene. C’è differenza tra far piacere e rendere felici.
Se la carità è benevola, vede e sottolinea il lato positivo. Non vuol vedere la mala fede, vuole sempre scusare. Pertanto, vuol pensare sempre bene di tutti, cerca di interpretare in bene le azioni del prossimo.
La carità non è “invidiosa”, ma è generosa.
È quella di chi si sente in gara con altri, ma che gode nel sapere che è più bravo e vince l’altro. È essere contenti del bene, da qualsiasi parte provenga.
È auspicabile coltivare la così detta “santa invidia”, cioè il desiderio di assomigliare nel bene all’altro, ma non riuscendovi sia lontano da sé ogni astio o sentimento di detrazione.
La carità “non si vanta e non si gonfia d’orgoglio”, ma è umile.
L’umiltà non nega i doni ricevuti, anche davanti agli altri, ma neppure se ne vanta come se fossero meriti propri. Dopo aver fatto il bene attraverso i doni ricevuti, si rientra nell’ombra ed è preferibile non dire nulla di quanto è avvenuto, se non per lodare Dio, alla maniera di Maria che ha cantato “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”, e non, quindi, alla maniera del fariseo.
L’umiltà è anche dipendere dagli altri, nel senso che riconosciamo di aver bisogno di luce, di aiuto, di conforto; questo a cominciare vicendevolmente nell’ambito della coppia.
Ovviamente l’aiuto viene chiesto con delicata sincerità, al momento opportuno, con piena fiducia, senza rinfacciare difetti o mancanze.
La carità “non manca di rispetto”, cioè non è sconveniente.
È l’umana educazione e gentilezza, è il galateo portato a livello di carità.
È l’attenzione alle minime parole, ai minimi bisogni e ai minimi desideri dell’altro, per soddisfarli.
È l’attenzione anche ai minimi nostri sbagli, volontari o involontari, per chiedere scusa e per impegnarsi al meglio.
È l’attenzione a non essere ficcanasi, curiosi, pesanti, invadenti.
Anche qui c’è un cammino. Tutti questi aspetti si acquistano di mano in mano che si progredisce nella vita spirituale.
La carità “non si adira”, cioè non si irrita, ma è sempre dolce.
Il malumore, infatti, è l’elemento più distruttivo dei rapporti umani. Quando c’è un vizio nelle persone, sia pure fondamentalmente virtuose, questo è l’amarezza.
Molti sarebbero del tutto perfetti se non fosse per questa tendenza ad essere facilmente rannuvolati, impulsivi, suscettibili.
La carità “non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità”, cioè è sincera.
La verità, per colui che ama, sarà oggetto di amore non meno che il prossimo. Altrove Paolo dice di “amare nella verità”.
Pertanto, andrà in cerca della verità con umiltà di spirito, senza pregiudizi; amerà quello che avrà scoperto, a costo di qualsiasi sacrificio.
Accetta di vedere le cose come sono, ma si rallegra se le trova migliori di quanto il sospetto avesse lasciato temere e la calunnia avesse insinuato.
Conclusione
Concludo citando una espressione del Beato Alberione: “La carità non richiede di non avere alcun pensiero personale, o l’obbligo di accettare sempre le idee altrui, ma essa produce insensibilmente una larga conformità di vedute, di sentimenti e di mire; è la formazione che avvicina sempre più le opinioni”.