Esercizi Spirituali 2013 - Rilessioni dettate a famiglie
La PEDAGOGIA della FEDE
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Ricordo le prime domande di coloro che, come simpatizzanti, si presentavano all’ISF,: “Che devo fare una volta entrato nell’Istituto? Quali impegni mi assumo?”.Si rispondeva, in modo non del tutto appropriato, così: “Sono richiesti gli esercizi spirituali, il ritiro mensile, l’adorazione comunitaria mensile, gli incontri di fraternità”.
Questa risposta, ovviamente, non faceva entrare in uno spirito. Pertanto, analogamente al cristiano della Messa domenicale, si poteva pensare che, fatto quanto richiesto, si fosse a posto.
Anche nel vangelo, pocanzi letto e ascoltato, i discepoli pongono una domanda simile: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”.
La risposta di Gesù chiarisce che non si tratta di fare delle opere, ma di farne una sola: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Quindi, non è neppure la prima opera, ma è l’unica.
Addentriamoci nella riflessione.
Non sono le diverse opere buone a farci meritare la salvezza, ma è la fede. Però, attenzione! Si tratta di non fraintendere. Le opere ci vogliono, ma non staccate dalle fede. Esse sono il frutto della fede; servono per dimostrare che la fede professata ha il potere di farci comportare in un certo modo e di salvarci.
Quindi la fede è l’unica opera a cui, di conseguenza, si collega il resto. Però, attenzione ancora! La fede non è opera nostra, ma di Dio; cioè è suo dono gratuito che, a sua volta, ha bisogno di essere accolto, coltivato e fatto fruttificare da noi.
Un’altra considerazione. La fede non ha come primo oggetto le verità a cui credere, ma ha una persona a cui aderire: Gesù Cristo.
Infatti abbiamo ascoltato “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Si tratta pertanto di fidarci di Gesù Cristo, come unica via di salvezza. Il credere a quello che dice ne è la conseguenza e, pertanto, si aderisce anche alle verità della fede.
Ci addentriamo, ora, nella riflessione sulla fede relativa al mistero eucaristico: celebrato, mangiato, adorato.
Partiamo dalla domanda posta dai discepoli: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Che cosa operi?”.
Non si tratta di vedere segni per credere, non sarebbe più fede; invece si tratta che prima c’è da credere e successivamente si vedrà.
La stessa cosa vale per chi si affaccia all’Istituto a cui intende appartenere: non si tratta di accoglierlo dopo aver capito, ma si capirà dopo averlo accolto. Non si tratta neppure di capirlo leggendo semplicemente lo Statuto, analogamente al fatto che, come per gustare un brano musicale, non basta avere fra le mani lo spartito, ma si tratta di sentirne l’esecuzione.
Sbaglieremmo anche se fossimo condizionati dal fatto che non sempre, purtroppo, vediamo i segni positivi nella pratica e nello stile di vita negli appartenenti. Non per questo l’Istituto non è più opera di Dio.
Non si può attribuire all’uomo ciò che viene da Dio: “Non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero”.
Nel caso nostro, non è tanto nel guardare quello che fanno gli altri, od entrarvi per simpatia o per obbedienza verso qualcuno, ma è mettersi di fronte a Dio per scoprire la eventuale sua chiamata: non dimentichiamo che è una vocazione.
Se questo non fosse avvenuto nel passato, cominci ad esserlo dal presente. Se non avessimo più la carica iniziale, si tratta ora di ringiovanire la nostra appartenenza, riprendendo fiducia e forza e pratica.
Torniamo al testo.
La manna era solo una prefigurazione del pane vero che, a sua volta, sarebbe stata una persona: Gesù Cristo. Si tratta di mangiare la sua carne e bere il suo sangue, cioè nutrirsi della sua persona. Da notare che Gesù usa il futuro: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Si tratta, ecco il futuro, del suo corpo immolato sulla croce: muore, ma, risorgendo, vince la morte. Noi, nutrendoci di lui, moriamo al peccato e con lui risorgiamo a vita nuova, a quella immortale; per questo si dice che l’Eucaristia è “pegno” di vita immortale.
Ecco, allora, che la celebrazione eucaristica rende presente, per l’uomo d’oggi, la sua immolazione sulla croce: la Messa è, anzitutto, rendere presente il “Sacrificio” della croce o, come si dice, celebrare la sua attualizzazione.
Successivamente diventa anche “Mensa”. Nutrendoci di lui, già risorto, ci è comunicata la sua immortalità. Comprendiamo, allora, l’espressione di San Paolo: “Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me”.
Sappiamo, inoltre, che non basta semplicemente ingerire un cibo. Perché questo possa portare il massimo frutto a vantaggio della vita, è necessario che venga assimilato.
Analogamente lo è per il cibo che è Gesù Cristo.
Perché questo avvenga con maggiore frutto, è necessario accostarlo al successivo silenzio e, soprattutto, a quello dell’adorazione eucaristica. Attraverso di esso si effettua una più stretta assimilazione a lui, una maggiore forza per vincere il peccato, il sicuro pegno della vita eterna.
La citata assimilazione viene espressa così: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”.
Certamente, per la cultura del popolo di Israele, le affermazioni di Gesù, soprattutto quelle del dover bere il sangue, suscitavano scandalo e irriverenza verso Dio; non potevano, pertanto, essere accettate. Si trattava di fare un scelta: o rimanere o andarsene; o fidarsi o non fidarsi; in altre parole o aver fede o non averla.
Pietro, pur non avendo capito tanto, ma illuminato dallo Spirito ed anche a nome degli altri, proferisce l’atto di fede: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”.
Come si rivela importante l’ascoltare senza pretendere di capire tutto!
E’ da tener presente anche quanto altrove è detto: “La mia parola è come la pioggia, non torna a me senza avere operato ciò per cui l’ho mandata”. Anche se non sempre l’effetto si può esperimentare, dobbiamo credere che c’è sempre: infatti, la Parola di Dio non è solo “ispirata” ma è anche “spirante”.
Inoltre va detto che l’assimilazione non va staccata dalla “ruminazione” della sua Parola.
Come il mangiare da gusto al palato, così la sua Parola di verità, di consolazione, di perdono, di forza, dà e deve dare gusto alla nostra vita, cosa che si esprime attraverso la risposta di lode, usando, preferibilmente, le sue stesse parole espresse nei salmi.
Infatti, prima dell’Eucaristia c’è la Parola; così è strutturata la celebrazione eucaristica. Ed anche il silenzio che segue alla parola stessa e poi alla comunione eucaristica, ha questo scopo.
A nuovo titolo, è il silenzio vissuto nella visita e nell’adorazione eucaristica: non tanto le nostre parole, quanto la “ruminazione” fatta di silenzio ed anche della eventuale nostra risposta servendosi innanzitutto della sua parola – come detto sopra - attraverso i salmi; ed anche del semplice silenzio in cui Dio agisce, analogamente allo stare sotto il sole, sia pure dormendo.
E’ questo che ci fa entrare nell’intimità e fa realizzare la parola di Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui”.
Bello ed eloquente il commento di Sant’Agostino al proseguo della risposta di Pietro: “Pietro non ha detto <noi abbiamo conosciuto e creduto>, ma <abbiamo creduto e conosciuto>, poiché <conoscere per credere> è umano, <credere per conoscere> è divino”.
Quindi il binomio della fede è: “prima si tratta di credere, solo successivamente verrà una migliore conoscenza e si farà una gioiosa esperienza”.