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Riprendo dall’ultima battuta della riflessione scorsa in cui, nelle circostanze in parola, don Lamera diceva “sturate la bottiglia e fate festa”.
La motivazione di gioia: “Perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”.
Da notare che non si parla di retribuzione o salario, ma di ricompensa.
È facile cadere nell’equivoco: infatti, qualche volta anche noi aumentiamo preghiere e sacrifici per avere il contraccambio da Dio. Facendo così entriamo nello stile del commercio e del baratto, pensiamo che, avendo fatto più cose buone, abbiamo anche maggiori meriti, e, quindi, maggiore diritto per essere accontentati. In realtà, niente ci è dovuto. La salvezza è dono gratuito di Dio. Non si acquista con i propri meriti, per i quali Dio deve retribuirci, seppure ci vuole un impegno, cosa che noi chiamiamo merito.
Uno dei modi per far sì che giunga la ricompensa sono la persecuzione, gli insulti e quanto altro legato al motivo che siamo di Cristo. A questo si riferisce la ricompensa “grande”. Per tale motivo, la gioia della ricompensa si manifesta anche nel volto e negli atteggiamenti esterni: i due verbi “rallegratevi” ed “esultate” dicono proprio questo.
Il “rallegratevi” richiama il saluto dell’angelo a Maria: doveva rallegrarsi non per i propri meriti, ma perché era stata scelta da Dio ad essere la madre del suo Figlio. L’ “esultate” richiama la gioia danzante di Giovanni nel grembo di Elisabetta, cosa ugualmente del tutto gratuita.
Se da parte di Dio tutto è gratuità, altrettanto sia da parte nostra “Gratuitamente avete ricevuto – leggiamo nel vangelo - gratuitamente date”.
Pertanto, nel rapporto con Dio non c’è merito ma fede, non c’è retribuzione ma ricompensa: l’una è dovuta per prestazione data, l’altra è donata.
Quanti cristiani vanno a messa o compiono atti religiosi per tacitare la coscienza o per avere il contraccambio. Dio non voglia che questo capiti nell’ambito dell’Istituto. Lo fanno pensare quelli che, ad un certo punto, dicono: “L’Istituto non mi dà più nulla”. Fatte le debite proporzioni, mi vien da pensare anche a quei cristiani che, dopo aver pregato e non ottenuto, escono con l’espressione: “Dio non mi aiuta, non credo più”.
Bisogna, pertanto, conoscere e, soprattutto, vivere l’identità dell’Istituto.
Passiamo in rassegna e brevemente il suo “essere”, il suo “avere” e il suo “dare”.
- Per l’ “essere” intendiamo il suo elemento costitutivo ed essenziale. Non è stato voluto per volontà del fondatore don Alberione: egli ne avrebbe fatto a meno, vista anche la sua età avanzata. Significativa, a tal proposito, l’espressione rivolta a Maria: “Io indegno vostro figlio, accetto con amore la volontà del vostro Figlio Gesù: completare la famiglia paolina…”.
Allora l’Istituto è opera di Dio e, pertanto, possiede valori perenni e immutabili che ne assicurano la stabilità e la validità: per cui diventa necessario, ogni tanto, verificare se siamo rimasti fedeli al progetto originario.
Quali sono i valori da conoscere e da vivere?
Una speciale grazia per la santificazione personale e di coppia, con positivi risvolti per tutta la famiglia, in forza del “di più” che proviene dalla Consacrazione offerta da Dio e dalla risposta data attraverso i Voti.
Inoltre, un ministero matrimoniale più ricco, a vantaggio delle famiglie, in forza della grazia proveniente dalla Santa Famiglia di Nazareth e da San Paolo Apostolo, che ci chiedono di essere la loro attualizzazione nell’oggi.
Questo non significa che le altre realtà ecclesiali siano squalificate: bisogna che ognuno sia se stesso. Per similitudine: il melo è una pianta da frutto come lo è il pesco, ma ognuna sia se stesso; dal melo mi aspetto le mele e non altro, dal pesco le pesche e non altro. Diventa pertanto superfluo e dannoso girovagare, cercando altre spiritualità attratti da eventuali “fenomeni” o compiere altre opere apostoliche trascurando quelle proprie.
- Cosa intendiamo per l’ “avere”? Ammesso che sia stato capito l’ “essere”, questo col tempo rischia di scolorirsi, se non è capito e non è messo in pratica anche l “avere”. Tornando alla similitudine della pianta: non basta che sia messa nel campo sapendo che è un melo; ha bisogno di attente e premurose cure perché fruttifichi.
L’ “avere” ha due aspetti. Il primo: quello intimo, quello di portare in pienezza la grazia ricevuta. Pertanto, non solo appartenere, in maniera piuttosto passiva, ma essere vivi e operanti in esso. Di qui l’impegno agli appuntamenti di crescita (esercizi, ritiri, incontri, collegamento tra famiglie, accompagnamento spirituale…).
Il secondo: l’aspetto dinamico/apostolico, cioè il mettere a profitto per i fratelli e le sorelle e per tutta la Chiesa, il “dono” ricevuto. Quanto più è vivo l’“essere”, perché alimentato dall’ “avere”, tanto più acquista efficacia l’apostolato. Che segno è quando si spegne il desiderio e non si fa neppure la proposta perché altri scoprano la vocazione o, peggio, perfino dispiace se qualcuno si avvicina, tanto che è accolto molto freddamente?
Infine, cosa è il “dare”? Tutto ciò che è vivo è anche operante. L’operare segue l’essere e, pertanto, la forza dell’operare ha le sue radici di potenza, di intensità, di estensione, nell’essere. Se è vero che l’operare segue l’essere, è altrettanto vero che l’operare rafforza l’essere il quale, a sua volta, è alimentato dall’avere. Ciò che non opera più, o è morto o è vicino a morire.
Una presenza operante e piena di Dio, anche silenziosa, non passa invano. A tal proposito una domanda: gli altri, incontrando un membro dell’Istituto, anche nell’incognito, si accorgono ed esperimentano una presenza di grazia?
Se i membri non vivono i tre aspetti, ad un certo punto entreranno in crisi, si interrogheranno circa la loro identità: a che serve essere nell’Istituto?
La crisi ha inizio con la diserzione dalla vita di gruppo, non per veri impedimenti, ma perché non si vede più la ragione.
Inoltre si perde il desiderio e la gioia dell’incontro e, peggio, si diventa critici e si dirà: perché “voi” o perché “loro”… dimenticando il “noi” e le proprie responsabilità.