Riflessione dettata dal Rettore alle famiglie riunite in ritiro spirituale il 14 aprile 2013 presso il Santuario San Giuseppe in Spicello di San Giorgio di Pesaro
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Ci lasciamo guidare da due attributi di Dio: quello di “Padre” e quello di “Onnipotente”.
Ambedue sono compromessi nella società attuale la quale, se da una parte ha perduto il valore della paternità, dall’altra, contando sulle proprie capacità, va a sfociare nella violenza.
A suo tempo Dio si era rivelato a Mosè dandogli il proprio nome e definendosi: “Io sono”, che vorrebbe dire “io non posso non esserci”. Esso richiama la sua “esistenza eterna”. Il relativo attributo noi abbiamo definito con il termine “onnipotente”.
L’evangelista Giovanni, a sua volta, lo definisce: “Amore”, che vorrebbe dire: “Io non posso non amare”. Esso richiama la sua misericordia. Il relativo attributo noi abbiamo definito con il termine “padre”.
Il rivelatore della paternità di Dio è stato Gesù Cristo. Nel vangelo, chi nomina di più il termine “padre” è Giovanni ma chi ne parla maggiormente è Matteo. Egli ci aiuta a fare esperienza della paternità di Dio per imparare ad amare veramente, come lui ama.
Possiamo ben affermare che l’amore è strettamente legato alla paternità di Dio, perché non può esserci altro amore, e lo definiamo con questa espressione: “Dio è amore perché è Padre ed è Padre perché è amore”.
Nel nostro linguaggio l’essere “padre” fa riferimento all’uomo maschio, ma in Dio non c’è sesso: con il titolo attribuitogli egli, nel contempo, riassume tutto quanto noi consideriamo esserci nel padre e nella madre.
Infatti, creando l’uomo a sua immagine, ha voluto distribuire le sue qualità in parte all’uomo ed in parte alla donna.
La paternità e la maternità, vissute da noi, non si limitano a quelle naturali in cui si genera il figlio, ma anche a quelle esercitate per la sua crescita e la sua educazione. Ma non è neppure solo questo. Tale tipo di paternità e maternità non è esclusiva. Tutti siamo chiamati, in qualche maniera, a viverla in spazi più ampi: in campo sociale, morale e soprattutto spirituale, pena la non realizzazione di se stessi.
Vediamo ora quali siano le qualità per esercitare bene la propria paternità e maternità, ovviamente viste nella loro ampiezza e riferendoci, come detto, soprattutto al campo spirituale.
Messa in relazione a Dio leggiamo: “Ha tanto amato il mondo, da mandare il suo figlio”. Ed altrove: “Egli (il figlio) non tenne come tesoro geloso l’essere Dio, ma spogliò se stesso facendosi uomo”.
Allora l’unico esercizio vero della paternità è la donazione di sé, senza badare a sacrifici, senza attendere risultati immediati e tanto meno secondo il nostro punto di vista.
Come è possibile riuscire in questo esercizio? Non è possibile senza la grazia e la forza che viene da Dio.
Quale primo mezzo per riuscire, unitamente al fare quanto è possibile da parte nostra, è la preghiera. Essa ci mette in relazione con Dio e di conseguenza, aprendoci a lui, ci rende capaci di partecipare dei suoi attributi e la forza di viverli nella vita quotidiana.
Come deve essere la preghiera in tale senso?
Matteo in proposito afferma: “Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”.
Innanzitutto: “Entra nella tua camera” e “nel segreto”. Significano: silenzio, intimità, riserbo. Questa relazione con Dio è la prima cosa per vivere bene la paternità e la maternità.
Prosegue Matteo: “Pregando non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate come loro, perché il Padre vostro sa di quale cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate”.
Lo stare in silenzio davanti a lui è simile all’atteggiamento del mendicante che porge la mano, in atteggiamento umile di richiesta e senza pretese. Noi, nella preghiera ben fatta, ci abbandoniamo con fiducia e senza porre ostacoli, al disegno di Dio su di noi. Affidiamo noi stessi ed affidiamo le persone su cui siamo chiamati a vivere la paternità.
Notiamo bene inoltre che, all’attributo di “Padre” accostato a Dio, viene aggiunta la tenerezza dell’amore. Egli non è un Dio lontano, ma è in mezzo a noi e vive i nostri problemi. Ecco, allora, come anche noi siamo chiamati a porre nel cuore i problemi degli altri: è così che si vive la paternità.
C’è da cogliere, inoltre, un’altra espressione: “Il Padre tuo ti ricompenserà”. La ricompensa non è un “diritto” acquisito attraverso la domanda, ma è “grazia” che proviene dalla gratuità dell’amore.
La conseguenza di ciò è che, verso chi è considerato figlio, si riverserà tanta grazia di Dio, di cui siamo chiamati ad essere un canale non otturato.
Altro attributo è quello dell’ “onnipotenza”.
In una colletta diciamo: “O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono…”.
Quindi Dio è “Onnipotente” nell’amore il quale si rivela, innanzitutto, nella infinita misericordia. Ciò vuol dire che perdona sempre: egli non può non perdonare, altrimenti non sarebbe più Dio. Ovviamente, il perdono arriva se da parte nostra ci sono le condizioni per farci perdonare.
A volte certe espressioni - ad esempio in un formulario dell’atto di dolore diciamo: “ho meritato i tuoi castighi” – non rivelano pienamente la sua misericordia. Egli, infatti, non è il carabiniere che punisce le inflazioni; il giudice inflessibile che pronunzia il verdetto di condanna; il padrone che obbliga a certi adempimenti.
Egli è “Amore” e come tale, se non è impedito da noi – come pocanzi detto - non può non amarci, analogamente al sole che, se non impedito dalle nuvole o dalla terra che lo nasconde, non può non illuminare e scaldare.
Il nostro impegno di amore da parte nostra non è tanto fare chi sa che cosa per ricambiarlo, ma sta semplicemente nel lasciarci amare da lui. Egli ci ama così come siamo e quindi anche come peccatori e col suo amore ci trasforma da peccatori a giusti.
La conseguenza pratica per noi è che ci amiamo vicendevolmente: solo l’amore migliora l’altro. Gesù, nel discorso di addio, afferma: Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”.
Quali sono le conseguenze pratiche per noi?
Siamo chiamati ad amare come lui ci ama e quindi: detestiamo sempre il peccato ma accogliamo sempre il peccatore. Afferma Giovanni: “Se dici di amare Dio che non vedi, e non ami il prossimo che vedi, sei un bugiardo”.
A questo punto, attenzione ad una tentazione subdola!
Noi sbagliamo quando vorremmo avere i doni e le qualità dell’altro. Buona cosa è desiderare poterli avere anche noi: sarebbe una “santa invidia”.
Ma non dobbiamo dimenticare che ognuno ha ricevuto il proprio specifico dono. Questo sarebbe sprecato se fosse ritenuto solo per sé, o per la propria ambizione e gloria, e non fosse messo a servizio dell’utilità comune, analogamente ai vari tasselli che compongono il mosaico. Se ci comportiamo così, i beni dell’altro sono anche i nostri beni, con un vantaggio che ridonda a beneficio di tutti.
Il nostro peccato è quando, non potendo essere come l’altro non avendo i suoi doni, ci dispiace: questo diventerebbe una “cattiva invidia”. Questo tipo di invidia, a sua volta, genera gelosie, contese e divisioni; porta alla detrazione cioè a pronunciare espressioni che mettono in cattiva luce la persona di cui trattasi.
Ed allora, in conclusione: solo amandoci e perdonandoci a vicenda, solo lodando Dio per i doni che ognuno possiede a vantaggio di tutti, noi esercitiamo maggiormente anche la paternità e maternità.
Cosa, questa, che ci rende realizzati nella vita e ci rende sereni e felici.