Riflessione dettata dal Prof. Fausto Negri il 09 giugno 2013 alle famiglie riunite in ritiro spirituale presso il Santuario San Giuseppe in Spicello di San Giorgio di Pesaro
Un cammino di fede sulle orme di Mosè (Es 3,12)
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PREMESSA: Che vita!
In ottant’anni di vita versiamo circa 80 litri di lacrime.
Siamo nati in compagnia di almeno 20 milioni di uomini e di donne, dei quali un numero impressionante morirà di fame o per malattie e violenze, guerre e privazioni già nei primi anni, e almeno un venti per cento nel tempo soffrirà di depressione o di malattie psichiche.
In questo periodo, facciamo circa ventimila sogni, usiamo i piedi per farci una camminata pari a tre volte il giro del mondo.
Assumiamo quasi diecimila tazzine di caffè e in una vita il nostro stomaco digerisce trenta tonnellate di cibo. Passiamo quindici anni di vita al lavoro, venti a dormire, tre in bagno, quasi un anno in coda al traffico, dodici anni davanti alla Tv di cui tre anni di sola pubblicità.
Per farci capire e tessere relazioni pronunciamo qualcosa come centotrenta milioni di parole, di cui solo un decimo verranno realmente ascoltate e solo il due per cento realmente capite.
Tutto questo in fedele compagnia di problemi sociali, tensioni politiche ed economiche, relazionali, sessuali, affettive, a cui si attaccano come zecche i problemi di ogni giorno.
Viviamo nella società post-moderna, liquida, senza gravità; nella società del labirinto, in cui ognuno crede di essere al centro ma vive nel frammento e non sa quale sia la via d’uscita. È la società delle “passioni tristi” e del “pensiero debole”.
Si può affermare senza ombra di dubbio che vivere, restare vivi in queste condizioni è un miracolo. In questa situazione non è strano che nel mondo occidentale l’elemento chimico più venduto per il nostro corpo e il nostro cervello siano i farmaci, gli psicofarmaci, gli antidepressivi, gli ansiolitici. Solo in Italia più di trenta milioni di confezioni l’anno, in continua ascesa. È il cibo della nostra società, il pane dei nostri giorni.
PRIMA PARTE
Come ai tempi di Mosè
I nostri giorni non sono troppo diversi da quelli di Mosè. L’Egitto era quella potenza culturale, economica e militare che si basava sulla schiavitù. I bambini venivano gettati nel Nilo (in Italia, tra il 1978 e il 2008 sono stati eseguiti – legalmente! - 5 milioni di aborti). Oggi come allora la gente pone la propria fiducia in tanti dèi/idoli. Se il vero esilio d’Israele si avverò quando gli Ebrei si erano dimenticati del loro Dio e non speravano più nella terra promessa, il dramma del presente è l’assenza di orizzonti, di nostalgia dell’Altro. Si parla di eclissi di Dio. Gli Egiziani adoravano il dio sole: oggi è come se davanti al Sole ci fosse qualcosa che lo nasconde. Più che alla Provvidenza noi oggi crediamo nella previdenza. Siamo così previdenti che le nostre case scoppiano di oggetti inutili. Siamo talmente previdenti che ogni anno noi italiani buttiamo nella spazzatura del cibo pari a 18 miliardi di euro (quasi 50 Kg di cibo a testa). Siamo così previdenti che la speranza da ultima a morire è diventata la prima morta.
Si sta poi sfilacciando la solidarietà tra le persone. Il “capitale sociale”, cioè il legame tra le persone, è in declino, anche se ben sappiamo che solo mettendosi insieme il risultato sarà maggiore della somma delle parti. Viviamo in un periodo di interregno, in cui le vecchie regole e situazioni non funzionano e non valgono più, e quelle nuove non sono ancora state inventate. Trattasi di un periodo di incertezza, in cui le stesse utopie sono state privatizzate, così che ciò che sogniamo è un posticino tranquillo in un mondo irreparabilmente non migliorabile.
Quali le conseguenze? Il Card. Bagnasco ha affermato di recente che «siamo al bivio dell’umano». E Papa Francesco ha ribadito che «oggi siamo a un tornante della storia. È in pericolo l’uomo, la persona umana. Si è instaurata la cultura dell’usa e getta: quello che non serve si getta. I bambini, gli anziani (con questa eutanasia nascosta che si sta praticando), i più emarginati. Questa è la crisi che stiamo vivendo».
Ed è così che ciascuno di noi, ogni giorno, deve affrontare almeno due drammi. Il primo si avvera quando suona la sveglia al mattino. Chi non sa dire: «Buon giorno, mio Dio!», non può che pensare: «Mio Dio, un altro giorno!».
Il secondo dramma avviene qualche passo più in là, quando ci si guarda allo specchio. Qualcuno ha detto che «lo specchio è il migliore amico, perché non ti ride mai in faccia quando tu piangi»; infatti lo specchio sorride solo se noi gli sorridiamo… ma alzi la mano chi al mattino sorride allo specchio. Così, pensando a questo secondo dramma, qualcun altro ha aggiunto che «prima di riflettere le immagini, gli specchi dovrebbero riflettere un momentino» (!?).
Che fare?... Ci vorrebbe “qualcuno”, che ci assicurasse un amore perenne al di là dei nostri difetti, che ci dicesse dove appoggiare i piedi e ci indicasse una direzione… Qualcuno che, in questa esistenza così lacerata e in questa società così conflittuale, ci desse un energetico spirituale così da dominare non soltanto il positivo, ma anche tutto il negativo, ogni sofferenza, colpa, assurdità, morte…
Un pastore di nome Mosè
Mosè, per 40 anni nel deserto, quante volte avrà ripensato alla sua esistenza così fortunata e tanto tragica.
Era stato istruito in “tutta la scienza degli egiziani”; aveva dunque avuto un’educazione di qualità. Possiamo dire che fosse un uomo di cultura, uno che “sapeva di sapere”. Era stato il Principe d’Egitto, “potente in parole e opere” (non in opere e parole).
La sua era stata però anche un’esistenza tragica… Lui era stato “salvato dalle acque” (questo il significato del suo nome), ma i suoi coetanei erano stati gettati nel Nilo e la sua gente era schiavizzata, in balia delle guardie del Faraone.
Una vita drammatica, la sua, perché il periodo di massima generosità si era concluso con il suo massimo scacco: aveva ucciso una guardia egiziana e, come ricompensa, non era stato accettato dalla sua gente. Uno scacco totale: col faraone, da cui era ricercato, col suo popolo (da cui non era riconosciuto come liberatore) e con se stesso. Ora non era più nessuno.
Allora si era accasato (o meglio, “attendato”); si era sposato ed era diventato un pecoraio. Aveva avuto due figli, ad uno dei quali aveva dato il nome di Gherson, che significa “straniero”…
Lui si sentiva uno straniero in quella terra, ed aveva come un tormento dentro. Dopo tanti anni non era un addormentato ma un inquieto. Aveva evitato quella morte a piccole dosi che si chiama assopimento.
Finché un giorno…
Una persona appassionata non è un “decaffeinato”; sa vedere la situazione di schiavitù di tanta gente, intende sporcarsi le mani, è attento ai segni dei tempi.
Mosè vede un fuoco che pare non spegnersi mai. Trattasi di un fenomeno naturale nel caldo del deserto, ma la prima cosa che fa Mosè è di meravigliarsi. Quel roveto che brucia e non si consuma è come la sua passione e il suo tormento…
Prima del mare attraversato all’asciutto, c’è la ricerca, la curiosità: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo, a vedere come mai il roveto non brucia» (Es 3,3).
A 80 anni Mosè è ancora capace di stupirsi (Attenzione! Teniamoci in forma, perché Dio ci può chiedere grandi cose anche a 80 anni!).
Mosè è ormai maturo per una nuova infanzia, per ricevere la novità di Dio. Tutto nasce da questa semplice affermazione: «Voglio capire». Quand’era principe d’Egitto “sapeva di sapere”, e un uomo che sa e che sa di sapere non è più capace di meravigliarsi. Mosè abbandona la comodità della pianura ed inizia la faticosa salita verso l’alto. La sua anima è ormai purificata. Ora non va più alla ricerca di un successo personale, ma cammina per scoprire la verità così com’è.…
Dio si presenta come Fuoco che attira, affascina, dà luce e calore ma che, nello stesso tempo, non si può mai trattenere tra le mani… Egli si presenterà poi con tuoni e fulmini – sul Sinai -; poi ancora come nube che nel deserto ripara dal sole ed accompagna il popolo, ma che non si può né comandare, né toccare.
«Mosè, Mosè…»
C’è qualcuno che conosce il suo nome e che si interessa proprio di lui, un emarginato, un fallito. Qualcuno grida il suo nome in mezzo al deserto della sua esistenza.
Quel “Qualcuno” è lo stesso Dio che dirà a Geremia: «Prima di formarti nel grembo materno io ti conoscevo» (Ger 1,5). L’apostolo Paolo arriverà a dire: «In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo» (Ef 1,4). Siamo stati scelti ancora prima della creazione del mondo!... Evagrio, un monaco del IV secolo, ha scritto: «Se vuoi sapere chi sei, non guardare quello che sei stato, ma l’immagine che Dio aveva nel crearti». Dio aveva un sogno sulla nostra culla. Noi abbiamo il compito di individuarlo e realizzarlo.
Scrive il card. Martini: «Noi siamo oggetto di una Provvidenza che ci segue passo passo, anche là dove ci sentiamo desolati, anche abbattuti, scoordinati. E questa è la verità fondamentalissima che mette in sesto l’esistenza di una persona… Dio ha cura di me, io sono nelle sue mani».
La fede in Qualcuno che ci ha pensati, amati dall’eternità getta nuova luce sulla nostra esistenza. Mosè rivede la propria vita e tutto gli si rivela come “grazia”… anche le difficoltà e i momenti più terribili, come quei 40 passati a parlare alle pecore sotto il sole cocente.
Se ciascuno di noi guarda la propria vita con occhi di fede, vedrà che molte ferite sono diventate feritoie e che molte lacrime sono diventate stelle.
Mosè ora conosceva bene il deserto e le tecniche di sopravvivenza in quei luoghi infidi e pericolosi, così da potervi condurre il suo popolo. Vestito e abbronzato come un pastore adesso poteva essere riconosciuto dai suoi fratelli come uno di loro, a differenza di quand’era Principe d’Egitto.
«Togliti i sandali, perché questa è terra santa!»
Mosè si toglie i sandali davanti al roveto ardente, poi si copre il volto per non morire di una vita troppo forte.
Noi abbiamo forse perso il senso del Mistero. Eppure, per comprendere la grandezza di Dio, basterebbe pensare alla grandezza dell’universo. Quando insegnavo dicevo ai miei ragazzi: pensate di essere su un missile che parte alle velocità più grande che conosciamo, quella della luce: 300.000 Km al secondo. Ebbene, in un secondo, arriveremmo sulla luna, in 8 minuti sul sole… ma ci vorrebbero 3 anni (3 anni-luce!) per arrivare alla stella più vicina al sole; questa stella è però solo una dei duecento miliardi di stelle della Via Lattea; e pensate ancora che questa galassia è solo una del mezzo miliardo di galassie che si trovano nel nostro universo… Credete che tutta questa immensità, che ha regole matematiche perfette, sia avvenuta per caso? Credere al “caso” – secondo lo scienziato Carlo Rubbia – è come credere al fatto che, grazie a uno scoppio, in una tipografia sia nata la Divina Commedia!
Eppure, arrivare a pensare che ci dev’essere un Architetto che ha creato il mondo non è ancora la fede biblica. Per la Bibbia, la fede dell’uomo in Dio non è un dimostrare razionale né un sentire irrazionale e neppure un atto decisionistico della volontà, bensì un incontro, in fidarsi fondato e, in questo senso, ragionevole: esso è cosa dell’intelletto, della volontà e del sentimento.
Papa Francesco ha affermato che il cristiano non crede in un Dio “spray” che è dappertutto ma non si sa chi sia . Non in un Dio “tappabuchi” che con degli atti magici si può tirare dalla propria parte. Dio è’ un Padre onnipotente. Non dobbiamo mai scollegare i due termini: è onnipotente, quindi Presenza misteriosa (Mosè non potrà vedere il suo volto, ma solo la sua schiena); Padre, quindi Misericordia infinita.
Davanti a questo Dio non si può stare se non con stupore. Mosè poco prima stava coi piedi calzati e col volto nudo; adesso si ritrova col volto coperto e i piedi nudi. Se ci mettessimo tutti così e arrivasse dentro una persona estranea, forse ci troverebbe strani… senza alcun contegno… Forse la massima garanzia di serietà cristiana è una certa dose di pazzia…
Chi pensava solo qualche anno fa che Spicello fosse terra santa? Per affermare questo, una persona doveva essere o un santo o un pazzo…
Se riconosciamo accanto a noi la presenza del Signore, il luogo in cui siamo stati posti a vivere – qualunque esso sia, anche un “deserto” arido e pieno di rovi – è “terra santa”.
«Sono il Dio dei tuoi padri»
Il Signore dice a Mosè: «Ho visto, ho sentito, conosco, sono sceso…».
La storia dell’esodo è il racconto di un Dio altro da tutti gli altri; la sua irriducibile alterità è nell’ascoltare il grido degli oppressi.
Tra le due potenze – il faraone, che era dio per gli egiziani – e JHWH, tra la forza degli eserciti e l’impotenza della forza della misericordia, quest’ultima è la più forte.
La logica di Dio non è quella del macigno che lanciato a valle semina morte e distruzione, ma quella del seme che diventa grano e pane energetico che dà vita.
Le piaghe d’Egitto non sono i simboli della crudeltà di Dio ma della chiusura del cuore umano. C’è una progressione tremenda nei disastri che il cuore umano compie, quando diventa duro come un sasso: la prima a soffrirne è la natura (acqua), poi gli insetti e gli animali (zanzare, rane, bestiame), poi gli uomini (ulcere), e poi… E poi sono i nostri figli a subire le conseguenze di una società egoista ed individualista! Un esempio per tutti è la cosiddetta “strage del sabato sera”: 100.000 giovani mila morti negli ultimi vent’anni!
Dio è Onnipotente - ha fatto il cielo e la terra - ma la sua grandezza sta nell’onnipotenza dell’amore. Ama i più piccoli, i più deboli. La storia della salvezza è una storia letta dalla parte degli ultimi. Quando vediamo le Piramidi, ci viene spontaneo dire: «Che belle! Che bravi i costruttori!». Non pensiamo mai agli schiavi che sono morti per costruirle. Tutta la Bibbia è invece la lettura della storia a partire dagli ultimi e dagli emarginati.
Dice Dio: «Ho osservato la miseria del mio popolo». Più mi rivolgo all’Altissimo, più comprendo che l’Altissimo si rivolge a chi è più in basso.
«Chi dirò che mi manda?»
Mosè inizia a fare delle obiezioni: «Ma chi sono io per andare dal faraone?... Ma io non so parlare… Ma chi dirò che mi manda…». I “faraoni” prima di tutto sono in noi: sono le nostre resistenze, le nostre comodità e interessi.
Alle obiezioni di Mosè, il Signore risponde dando doni, rassicurazioni e rivelando il suo Nome, cioè la sua identità. Un Nome che per gli Ebrei ancora oggi è impronunciabile, e che si può così tradurre: «Io ci sono stato – Io ci sono – Io ci sarò».
È come se il Signore avesse mandato a Mosè degli SMS di questo tipo:
«Io sarò con te se ti sentirai solo
Io sarò con te quando non vedrai nessuna via di uscita.
Io sarò conte se avrai paura.
Io sarò con te se nessuno ti vorrà bene.
Io sarò con te se l’ansia non ti farà dormire.
Io sarò con te se una prova ti sfinirà.
Io sarò con te quando ti sembrerà che il mondo ti crolli addosso.
Io sarò con te, ci sono sempre stato e ci sarò sempre.
Fidati di Me, ed Io-Ci-Sarò» (firmato: DIO).
«Ora va’»
Una volta che Mosè si è purificato dalla presunzione di essere lui il salvatore degli Israeliti, Dio lo rimanda e gli dà piena fiducia: «Io ti mando dal faraone». Mosè riceve la rivelazione del Nome divino e contemporaneamente la rivelazione della sua missione fra gli uomini.
Ha detto Papa Francesco: «No ai cristiani tiepidi. Alla Chiesa non servono cristiani da salotto, che non sanno fare figli alla Chiesa con l’annuncio e il fervore apostolico. Chiediamo allo Spirito Santo la grazia di dare fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa e quella di andare avanti verso le periferie esistenziali. E se diamo fastidio, benedetto sia il Signore!».
Uno immagina, a questo punto, che col mandato ufficiale dell’Onnipotente, la parola di Mosè debba essere stata irresistibile. Mosè, invece, dà fastidio a tutti, così che nessuno pare ascoltarlo: né il faraone (e questo è comprensibile), ma nemmeno gli Ebrei. Essi sono schiavi. Vero schiavo è chi non sa di essere schiavo Una persona che non sa e non sa di non sapere è pericolosa, perché ottusa, dalla testa dura.
Oggi, come credenti, ci troviamo ad affrontare un problema in più. Con un selvaggio era facile la missione. Con uno scristianizzato è molto più dura: crede già di sapere mentre non sa; è il mezzo-sapiente che ignora di ignorare. La nuova terra di missione si sovrappone alla nostra vecchia terra di dismissione. Tu, come cristiano, appari spesso come un piazzista a cui viene detto: «Lo conosciamo il suo prodotto. Ne abbiamo già due o tre in cantina».
La difficoltà è proprio far comprendere ad uno schiavo che è schiavo. Togliete il telefonino a un vostro ragazzo per una sola ora, o le sigarette a un fumatore per una sola giornata!
Un’ulteriore difficoltà è la seguente: lo schiavo di oggi è tremendamente comodo: ha il suo telecomando, le sue brioches, il suo computer a portata di mano: non è più lui che va al mondo, ma il mondo che viene da lui con un semplice clic del pollice. Siamo nell’epoca dei “nativi digitali”. L’organo più importante del corpo umano è oggi il pollice.
I mezzi di comunicazione non sono più “strumenti”, ma sono diventati modi di vivere, stili di vita. La conseguenza è che il consumatore diventa “consumato”, con gravi ripercussioni su atteggiamenti, modi di pensare e di giudicare, visioni di felicità e modalità per perseguirle…
Lo scopo della nostra civiltà è far sì che le opinioni diventino verità, e la Verità un’opinione. Ed è così che lo sballo viene presentato come un “di più di vita”, l’aborto come tutela della maternità, l’eutanasia come il morire con dignità, la sessualità distorta come il diritto alla libera espressione di sé, la miseria di miliardi di persone come un pedaggio necessario per il libero mercato…
La prime vittime sono coloro che, più fragili, assimilano di più: bambini e giovani. La nostra società li spinge a specchiarsi in un miraggio. Mentre offre loro risorse e opportunità un tempo impensabili, li espone a una frammentazione e omologazione che mettono in pericolo l’unità dell’io. La società dei consumi sollecita e incita l’individuo a soddisfare ogni desiderio e ogni bisogno senza limiti, non indicando però le cose vere, belle e buone da desiderare. E tutto questo si paga! La conseguenza è tragica: «La perdita di un braccio, di una gamba, di cinque monetine non passa inosservato. Il pericolo più grande (la perdita di sé) può accadere senza che ce ne rendiamo conto» (S. Kierkegaard). Si sta realizzando forse quanto ironicamente profetizzava lo scrittore Lec Stanislaw: «La tecnica arriverà a una tal perfezione, che l'uomo potrà fare a meno di se stesso».
Il problema di oggi è anzitutto un problema di spiritualità.
Mosè agisce – sia col faraone che con i suoi fratelli - con la parola e con i segni.
Il Signore l’aveva avvertito: le contrarietà che incontrerai non sono ostacoli ma la cornice dell’annuncio. L’indurimento dei cuori permettono la moltiplicazione dei segni. Le persecuzioni non sono ostacoli. Aprono da sole lo spazio della testimonianza, permettono di santificare il Nome. Il martirio – o con l’effusione immediata del sangue o con il dono del sangue goccia a goccia - è sempre stata la legge costitutiva della Chiesa pellegrina: «Quando non possono inchiodarvi il becco, cercheranno di inchiodarvi tutti quanti».
SECONDA PARTE
Le Quattro Erre
Le parole più tipiche del vocabolario di fede iniziano con ri o con re: riconciliazione, ri-surrezione, re-denzione, ri-generazione, ri-nnovamento, ri-mettere i debiti, ri-nascere dallo Spirito…
Mosè riesce a fare di una massa di schiavi un popolo libero, indicando 4 sentieri che indicano un percorso di vita e di fede (e che iniziano tutti con la “erre”):
1° sentiero: RELAZIONE con Dio e con i fratelli. La relazione con Dio è paragonabile al fondo stradale. Se la strada è impraticabile o piena di buche e di ostacoli non si va da nessuna parte.
In compagnia di altri, poi, la strada è più piacevole da farsi anche perché, insieme, la gioia si moltiplica e il dolore si dimezza.
Se il fondo stradale è buono e la compagnia dei fratelli rassicurante, il viaggio è piacevole, anche se piove o c’è un temporale.
2° sentiero: I RITI, I RITUALI: Trattasi di ciò che “innerva” l’esistenza, trattasi del tempo della quotidianità e della festa. Il culmine della fede cristiana si attua in quei riti che si chiamano Sacramenti e che esprimono la cura di Dio per la nostra esistenza.
In un’autostrada di oggi, i riti sono paragonabili alla corsia di emergenza, ai posti di ristoro e di rifornimento.
3° sentiero: LE REGOLE: Esse rimandano all’area dell’impegno, dei compiti, del sacrificio, al mondo dei valori e, dunque, all’educazione morale.
In un percorso stradale, le regole sono paragonabili ai segnali stradali.
4° sentiero: I RACCONTI, IL RICORDARE: Trattasi dell’educazione alla memoria attraverso i racconti. Attraverso il “fare memoria” una persona si collega al passato per progettare il futuro.
In un viaggio moderno, essi sono paragonabili al navigatore satellitare, che ricorda da dove si viene e che indica dove si va.
1) LE RELAZIONI:
La canzone che quest’anno ha vinto a Sanremo afferma una sacrosanta verità: «Mentre il mondo cade a pezzi / mi allontano dagli eccessi e dalle cattive abitudini, / tornerò all'origine, / torno a te che sei per me l'essenziale».
Basterebbe aggiungere a queste parole l’invocazione: “Signore”, ed esse si tradurrebbero in una bella preghiera.
a) La prima relazione che Mosè intrattiene è quella con Dio. La Bibbia afferma che “egli rimase saldo come se vedesse l’Invisibile”. La saldezza di un’esistenza deriva da un contatto personale e continuo con Dio.
Pensiamo, ad esempio, a quando gli Ebrei fuggono dall’Egitto ed, inseguiti dai carri del faraone, si trovano davanti al Mar delle Canne. Ci sarà stato chi sosteneva di arrendersi andando a trattare con gli Egiziani, chi voleva invece combattere, chi intendeva buttarsi a mare piuttosto che ritornare schiavo… tanti poi si lamentavano: «Forse non c’erano sepolcri in Egitto e ci hai portato a morire nel deserto?>>. Mosè dice: Fidiamoci! Perché l’Esodo si compia, occorreranno la mano forte e il braccio disteso di Dio. Occorrerà fidarsi, affidarsi a Lui: «Non abbiate paura, Non lasciatevi travolgere dall’angoscia; siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi. Perché gli Egiziani che vedete oggi non li rivedrete mai più… Il Signore combatterà per voi e voi starete tranquilli (Es 14,11-14)». Gli Israeliti, seguendo Mosè, non fanno niente se non decidere di lasciar fare al Signore: si lasciano portare “su ali d’aquila”. Ma il brano biblico prosegue con il Signore che dice a Mosè: «Perché gridi verso di me?». Ciò significa che mentre Mosè ripeteva alla sua gente di stare tranquilla, dal canto suo gridava verso il Signore.
Il suo rapporto col Signore è di fatto una lotta continua. A un certo punto dice: «Che farò io di questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno» (17,4). E ancora: «Perché, Signore, mi hai imposto il peso di tutto questo popolo? ». (Nm 11,11).
La preghiera è una lotta. Dio getta in una performance al contrario, getta nella mischia.
In Es 32,7 c’è il dialogo tra Dio e Mosè, in cui quest’ultimo intercede per la sua gente. Il Signore esorta Mosè dicendogli: «Vai dal mio popolo…». Ma poi, di fronte alle continue infedeltà all’Alleanza: «Il tuo popolo si è pervertito, lo distruggerò e ne formerò un altro». Risponde Mose: «È vero che si è pervertito ma io gli ho sempre detto che il tuo nome è misericordia». La Bibbia conclude dicendo: «Dio si pentì del male che aveva giurato di fare a Israele!».
b) A livello di relazioni orizzontali, oggi manca la fiducia perché non ci fidiamo più di nessuno. Siamo alla ricerca disperata di qualcuno che mantenga quanto promette. Le relazioni si stanno trasformando nella fonte principale di ambiguità e di ansia.
Andare controcorrente, oggi, significa costruire legami buoni. Abbiamo l’enorme responsabilità di offrire esempi validi di vita familiare. Esempi validi non vuol dire perfetti, vuol dire credibili, seri, impegnati.
Siamo chiamati ad amare le persone e a usare gli oggetti. Oggi succede esattamente il contrario.
La comunicazione di Mosè col suo popolo è spesso un buco nell’acqua, tanto che si lamenta con Dio: «Perché mi hai inviato? » (Es 5,22). Eppure Mosè sa pazientare, confortare, correggere, portare il peso dei limiti dei suoi fratelli. Con la sua presenza ed azione, egli sa costruire un popolo educandolo a perseguire il bene comune.
2° Pilastro: I RITI – I RITUALI
I riti costituiscono, nel viaggio, i luoghi anche in cui si può fare il punto-bussola, i posti di ristoro e rifornimento. Il rito/rituale ha infatti la capacità di raccogliere, esprimere, rilanciare la nostra vita.
Dobbiamo realizzare nella nostra vita quello che si attua nella foglia, se la esaminiamo in trasparenza, alla luce del sole. Da un lato, essa è tessuto connettivo, molto ampio e articolato; ma dall’altro è anche nervatura, una serie di filamenti che sostengono e alimentano il tessuto. Se fosse solo nervatura, si chiuderebbe divenendo un groviglio; se fosse solo tessuto connettivo, si raggrinzirebbe e seccherebbe disperdendosi. Questo intreccio armonico vale anche per la nostra esistenza. La festa, i riti quotidiani sono la nervatura.
a) Anzitutto i riti quotidiani. Ne evidenzio solamente tre: a) il pranzo/la cena; b) il momento della “posizione orizzontale”, quando i genitori mettono a letto i figli (è lì che escono spesso le paure e le domande profonde) e quando la coppia va a letto (il parlarsi, il coccolarsi, il fare l’amore). c) La preghiera e l’ascolto della Parola nella quotidianità. Una famiglia che prega unita, resta unita (Madre Teresa), I riti e i rituali creano quel miracolo che è l’abitudine. Spesso abbiamo uno sguardo cattivo sulle abitudini; esse invece, quando sono “buone”, custodiscono la nostra vita anche quando la nostra consapevolezza non è al massimo. Occorre quindi curare le buone abitudini (da “habitus”, abito).
b) I riti “religiosi”. Mosè, per educare la sua gente, propone continuamente dei riti. Pensiamo ad esempio, alla meticolosità con cui presenta la cena pasquale: l’agnello dev’essere maschio, senza difetti, nato nell’anno, mangiato insieme, con i calzari ai piedi e il bastone in mano… Pensiamo al rito dell’Alleanza, con il sangue dell’agnello versato in parte sulla pietra/altare e in parte sulla gente: un patto di amicizia, basato sull’impegno comune tra Dio e il popolo, come tra membri della stessa famiglia. Si può riflettere anche sulla manna, la cui raccolta per la singola giornata diventa un vero e proprio rituale in cui la gente si abitua alla Provvidenza divina: chi è troppo previdente, infatti, e ne raccoglie per due giorni, si ritrova il giorno seguente con del cibo marcito.
Oggi è importante recuperare la dimensione vera della festa, il prendersi tempo.Non è possibile vivere sempre in festa (si cadrebbe nel devozionalismo), né nel divertimento fine a se stesso o nel godimento superficiale (si cadrebbe nella noia). Per gli Ebrei la festa “è l’eternità in cui Dio riposa”. La festa è un appello a vivere con intensità l’oggi, al gratuito, un tempo in cui all’avere subentra il donare. Heschel afferma: «Il settimo giorno fornisce nel tempo un assaggio di eternità: esso è il ricordo di due mondi, quello presente e quello futuro». Il tempo è come il respiro: non si vive solo espirando. Il rito/il rituale ci aiuta ad inspirare aria buona. Altrimenti si arriva ad essere come quel tale che disse: «Io corro nella vita, la vita corre attorno a me: il problema è che non ci incontriamo quasi mai!».
Nel cristianesimo i Sacramenti sono poi momenti culminanti che segnano i passaggi fondamentali della nostra esistenza: sono le azioni di grazia - col Signore che ci precede sempre -, in cui siamo lavati, profumati, nutriti, resi capaci di amare, presi in cura, accompagnati nel morire…. Essi celebrano e abbracciano tutto ciò che è veramente umano; sono dunque momenti essenziali dello sviluppo. Ci ricordano chi siamo, la nostra umanità, la nostra fragilità e i nostri bisogni, la nostra natura sociale, il nostro meraviglioso destino… Senza riti non possiamo vivere!
3° Pilastro: LE REGOLE, I VALORI
Trattasi dell’educazione morale attraverso il risveglio del desiderio.
Nel viaggio moderno si possono paragonare al guard-rail: proprio nel suo limite e blocco, è in positivo ciò che definisce la corsia e permette di guidare in serenità, insieme a chi va nella medesima direzione. È una scelta libera, ma non è mai “individuale”, perché riguarda il bene di tutti: non si può andare contromano su un’autostrada.
Lo stesso vale per i segnali stradali. Troppi segnali, troppo complessi e dettagliati rischiano di creare confusione circa la direzione ottimale. Ma se l’indicazione è precisa ed essenziale, uno ha la libertà di scegliere e la certezza di arrivare.
- La decadenza non è rifiuto dei valori, ma l’indifferenza ai valori e il conseguente relativismo. L’educazione morale è un generare all’autentico amore, alla vita buona. Il primo modo di amare la vita è di aiutarla a non farsi male. I “no” sostengono la crescita, le regole aiutano a non sciupare la propria vita e a non far male agli altri. Proteggono anche dal ridurre il proprio desiderio al puro bisogno. Indicano una meta, infondono il desiderio di vivere.
I riferimenti etici e morali sono come i blocchi di partenza, un divieto alla regressione e un’autorizzazione alla vita. Come nel football americano. Si parte da dietro, si passa sempre indietro, ma sempre puntando la meta e avendola sempre presente. Noi non camminiamo sulla strada per evitare qualcosa, ma guadagnare la meta. Attenzione! Senza valori, niente ha più valore, neppure la vita stessa.
Occorre insegnare ai nostri giovani a non pretendere tutto e, quando serve, occorre dire "basta". Il sacrificio, infatti, compie il desiderio, quando è autentico, in quanto ne è la condizione. Il dovere è la condizione della soddisfazione. Ignazio di Loyola, un santo che ha praticato una dura ascesi, sosteneva che «la santità è un piacere che dura». Le persone più disperate sono proprio quelle che non hanno sponde, che passano attraverso la vita prive di direzione, di punti di appoggio e di prospettive capaci di dare senso alla propria temporalità. Gli argini sono per il fiume la possibilità di scorrere in sicurezza e sono cura e rispetto per il territorio. Ciò che sembra un limite costituisce, invece, la condizione non solo per evitare danni ma anzi per consentire l’irrigazione, la navigazione e l’energia.
- I Comandamenti rappresentano un codice di moralità, che come ha affermato Giovanni Paolo II «è già inscritto nella coscienza morale dell’umanità»: «Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te, Questa parola è molto vicina a te. È nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt. 30,11-14).
L’etica e la morale saranno i temi centrali del XXI secolo. Sta rinascendo infatti l’esigenza di un rinnovamento spirituale. Le tradizioni religiose ed etiche contengono già in sé elementi sufficienti per una morale praticabile da tutti gli uomini di buona volontà. I comandamenti sono un’indicazione del campo in cui possiamo trovare l’albero della vita. Sono parole di garanzia per una vita nella libertà. L’educazione cristiana ha sempre detto ciò che promuove e cosa abbruttisce la propria vita e una convivenza pacifica. E ha sempre fatto delle dieci parole una scuola del desiderio e non solo del bisogno.
Riflettiamo un attimo su alcuni Comandamenti:
1- “Non uccidere”. O in forma positiva: Rispetta ogni vita. Ogni uomo ha il diritto all’integrità fisica e al libero sviluppo della propria personalità. E nessuno ha il diritto di tormentare, ferire o addirittura uccidere un altro uomo.
In famiglia e a scuola, la violenza non può mai essere un mezzo di confronto con gli altri. Poiché in questo cosmo siamo legati gli uni gli altri, anche la vita degli animali e delle piante merita protezione, attenzione e cura. Nessuno si illuda: non c’è sopravvivenza dell’umanità senza la cultura della non-violenza e senza la pace.
2- “Non commettere adulterio”. O in forma positiva: Rispettatevi e amatevi a vicenda. Agisci in modo responsabile nell’ambito dell’amore, della sessualità e della famiglia. No alla discriminazione sessuale, all’abuso o allo sfruttamento sessuale. Sì alla fedeltà nell’amore. Nessuno si illuda: non c’è vera umanità senza il rispetto.
3- “Non rubare”. O in forma positiva: Agisci in maniera corretta e leale. Nessuno ha il diritto di derubare o di frodare un altro uomo. Nessuno si illuda: non c’è pace mondiale senza giustizia.
4- “Non testimoniare il falso. O in forma positiva: Parla e agisci con sincerità.
Nessuno si illuda: non c’è giustizia nel mondo senza sincerità e tolleranza.
5- “Onora tuo padre e tua madre”. Questo è l’unico comando espresso in forma positiva. Né i genitori devono sfruttare i figli né i figli i genitori, ma si devono reciprocamente “onorare”. Il loro rapporto deve cioè essere contrassegnato da reciproco riconoscimento e interessamento. Nessuno si illuda: può essere praticato a livello mondiale solo ciò che è già vissuto a livello di relazioni personali e familiari.
Non ci dice tanto quello che dobbiamo fare, ma ciò che siamo in verità.
L’educazione morale è un invito a desiderare, a trovare nell’amore verso di sé e verso gli altri il senso ultimo della vita. L’educazione morale è educazione all’amore, e dunque alla vita buona.
4° Pilastro: RACCONTARE E RICORDARE
Trattasi dell’educazione alla memoria attraverso i racconti.
In un viaggio, la direzione è l’aspetto meno evidente, ma il più determinante. È il senso di ciò che si fa. «Nessun vento è favorevole per chi non sa dove andare, ma per chi sa anche la brezza sarà preziosa» (Rainer Maria Rilke). Nel libro “Alice nel paese delle meraviglie, Alice impara la lezione quando giunge al bivio di una strada. Chiede al gatto quale strada deve prendere. Quando lui le chiede dove sta andando, Alice risponde che non lo sa. Il gatto conclude: «Allora non ha importanza quale strada prenderai».
- Oggi ci troviamo di fronte alla prima generazione incredula. Emergenza educativa – il tema che la Chiesa italiana ha scelto per il periodo 2010-2020 - significa che la cinghia di trasmissione tra le generazioni si è come spezzata. Emergenza non significa difficoltà generazionale, ma impossibilità comunicativa. Due generazioni si fronteggiano in una situazione di silenzio: il silenzio della incomunicabilità. Essa è dovuta al fatto che le generazioni precedenti sono state lentamente espropriate dalla loro cultura che è stata sbrigativamente sostituita dall’opinione comune mass-mediatica. I catechisti dei ragazzi oggi si trovano di fronte non a “piccoli cristiani” ma a “grandi atei”. I giovani sono divenuti i fruitori di tutte le maggiori acquisizioni/novità tecnico-scientifiche ed hanno la sensazione che “il mondo cominci con loro”. Ma, come ha giustamente affermato Benedetto XVI, «non si può entusiasmare un giovane con la sola tecnica. Un giovane ha bisogno di sapere perché vive». I giovani vedono una vita “virtuale”… Tutto si produce e si vive all’istante.
- Heinrich Boll ha detto che «noi nasciamo per ricordare». Chi non ricorda non vive, perché è privo di un bagaglio necessario di esperienze vitali.
Senza racconti non c’è gusto per la vita e non c’è speranza. Senza memoria cesseremmo di essere noi stessi, perderemmo la nostra identità. Chi è colpito da amnesia totale, vaga smarrito senza sapere né come si chiama né da dove viene né dove va. La ricchezza di un popolo si misura dalle riserve auree che conserva nel sottosuolo, nelle sue casseforti, dalle memorie che conserva nella sua coscienza collettiva.
Ecco allora l’importanza di educare alla memoria attraverso i racconti. La Bibbia è una storia; raccontando le vicende e i personaggi biblici aiutiamo i nostri ragazzi ad impadronirsi di quei valori che sono essenziali per la loro crescita, e li educhiamo a vedere la realtà tutta con gli occhi di Dio. Racconta che non siamo nati dal caso, racconta le fragilità che sono anche nostre, che possiamo affidarci a una speranza affidabile… che «non siamo esseri viventi destinati alla morte, ma esseri mortali destinati alla vita» (André Fossion). Possiamo allora vivere responsabilmente.
Il nostro “fare memoria”, poi, non è solo un ricordare ma è insieme Presenza reale (nell’Eucaristia), anche se nascosta sotto il segno del pane e del vino. Il Memorial Day (caduti delle guerre), il Gandhi memorial non fanno sì che i caduti tornino in vita; non è così per Cristo. La liturgia eucaristica non è una vuota commemorazione, ma un fare memoria di eventi del passato che diventano presenti, rendendo grazie dei doni ricevuti gratuitamente. Esiste dunque una forma eucaristica dell’educazione.
La liturgia eucaristica è ricordarsi dell’amore di Colui che non ha tenuto per sé neppure il proprio corpo, neppure il proprio sangue. È ricordarsi che noi viviamo di doni e che solo donandoci a nostra volta realizzeremo la nostra esistenza. È fare propria la strana matematica di Gesù: un moltiplicare dividendo, perché è dando che si riceve, morendo a se stessi che si guadagna la vita.
Papa Francesco ha detto: «Vi invito a fare memoria dell’incontro con Gesù, delle sue parole, dei suoi gesti, della sua vita; ed è proprio questo ricordare con amore l’esperienza con il Maestro che conduce le donne a superare ogni timore e a portare l’annuncio della Risurrezione agli Apostoli e a tutti gli altri (cfr Lc 24,9). Fare memoria di quello che Dio ha fatto e fa per me, per noi, fare memoria del cammino percorso; questo spalanca il cuore alla speranza per il futuro. Impariamo a fare memoria di quello che Dio ha fatto nella nostra vita!» (Veglia pasquale, 30 marzo 2013).
- Il protagonismo di Israele non consiste nel dover fare, ma nella coscienza di ciò che gli è stato fatto; non nell’essersi liberato ma nell’essere stato liberato. Il deserto, l’acqua, le quaglie, la manna (“Man hu” che cos’è: «È il pane che Dio vi ha dato in cibo») e la terra promessa diventano il simbolo dei doni di Dio, della sua premura. La terra promessa non è una terra altra da questa, ma questa stessa intesa come sovrabbondanza di beni e di felicità per tutti: «Il Signore Dio sta per farti entrare in un paese fertile» (Dt 8,7-9). Quali le condizioni per abitare? La prima condizione è abitare la terra non con la logica del possesso ma con lo spirito della riconoscenza: «Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai viso il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi e accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso;… che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri..>> (Deut. 8,12-16).
All’ “è mio” la riconoscenza sostituisce il “mi è donato”.
La seconda condizione è di abitare la terra secondo la logica dell’alleanza, comportandosi con ogni altro – lo straniero, l’orfano e la vedova – allo stesso modo con cui Dio si è comportato con Israele straniero in Egitto. L’alleanza non è solo riconoscenza con cui dico “non è mio, grazie perché me lo hai dato”, ma diventa giustizia con cui il “non è mio” si trasforma in restituzione nei confronti dell’altro in quanto altro.
La potenza del racconto biblico è nel lasciare intravedere, al di là delle differenze, una famiglia in cui i fratelli restano liberi e uguali: non in forza di ciò che hanno o fanno, ma in forza dell’alterità di un amore che li ha pensati prima del loro esserci e che del loto essere liberi e uguali è il fondamento stesso. Il grande codice della fraternità, che custodisce l’utopia di un umano in cui gli uomini non sono né lupi che aggrediscono, né agnelli che subiscono, né estranei che si ignorano, né lottatori che competono, ma “unici e diversi” chiamati ad accogliersi come membri della stessa famiglia umana.
Alla luce dell’evento fondatore dell’Esodo, Israele rilegge il passato, vive il presente non subendolo ma giudicandolo alla luce della fedeltà o tradimento dell’alleanza, guarda e tende al futuro come a quel giorno dove la promessa di Dio si realizzerà pienamente.
L’evento fondatore della Bibbia diventa poi principio di lettura non solo per Israele ma di tutta la storia umana. Israele è “luce delle nazioni” (Is 42,4) e il Messia che nascerà sarà “Luce per illuminare le genti”.
CONCLUSIONE
Proviamo ora a pensare a cosa sarebbe un viaggio senza il fondo stradale, senza luoghi di sosta e rifornimento, senza alcuna indicazione e senza sapere da dove si viene e qual è la meta.
Proviamo ora a pensare cosa sarebbe una vita senza relazioni, delle relazioni senza riti, dei riti senza regole, delle regole senza racconti e senza ricordi. Sarebbe un’esistenza senza rapporti umani, senza parole da dire e da ascoltare, senza una memoria che ci apra al futuro, senza alti desideri… Insomma, si tratterebbe di una non-vita!
SAREBBE UN’ESISTENZA SENZA SPERANZA!
Siamo la prima generazione che non crede più in un avvenire lontano. Tutti si agitano e nessuno più agisce. Tutti sovraproducono e nessuno opera. La riduzione scientifica e tecnica della vita rischia di lasciare l’uomo incollato all’immediato; senza autentiche relazioni, cioè solo; senza riti, cioè sfiduciato; senza compiti e valori, cioè sregolato; senza racconti e parole e dialogo, cioè smemorato e senza una direzione.
L’umano sembra aver perso la propria credibilità. Meglio abortire (nichilismo), fabbricare androidi (tecnocrazia), avere un cane (ecologismo), o vivere da fanatici (fondamentalismo).
La fede sostiene, rinforza e dà senso (significato e direzione) alla nostra esistenza.
Davanti alla catastrofe, mentre i falsi profeti dicono: «Dopo di noi il diluvio», i veri profeti costruiscono invece l’arca e danno ospitalità a tutta la fauna che li circonda. Siamo chiamati ad essere autentici profeti, come Mosè che, nel deserto, ha additato continuamente la terra in cui scorre latte e miele.
Un’ultima “erre”: RICORDO.
La scomparsa di Mosè è scandalosa. La sua morte avviene in solitudine (muore lontano dal popolo); in obbedienza (morì in quel luogo per ordine del Signore); nella sofferenza (“Tu non vedrai, non entrerai”).
Ed è pure curioso che, terminati i libri del Pentateuco, Mosè scompare dalla Scrittura. Egli però rimane in un altro modo. Ad esempio, nel giudaismo odierno, in ogni sinagoga dietro il velo, nell’armadio in fondo, ci sono i libri di Mosè (non altri), considerati i libri per eccellenza,
Ciò fa di Mosè una permanenza oggettiva, non personale, non trionfalistica, non faraonica, legata ai fatti, alle cose, al tipo di servizio che egli ha reso e per cui rimane in Israele (e presso i cristiani).
Gregorio Nisseno dice che “Mosè morì, ma in lui la vita si manifesterà nei secoli». C’è una misteriosa permanenza di Mosè, che noi non possiamo chiamare ancora resurrezione, ma che orienta ad essa.
Una vita buona e un’esistenza vissuta con fede lascia un buon ricordo.
La memoria ci è data per permettere di dire: "Ho avuto un buon padre / Ho avuto una buona madre".
L’augurio che faccio a me e che faccio a ciascuno di voi è che tutto quanto di buono, di bello, di vero (con tanta fatica) avremo fatto e faremo per i nostri figli, per le nostre comunità e per la società tutta rimanga in qualche modo indelebile.
Nella certezza che un giorno,
INSIEME,
«riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo;
ameremo e loderemo, nella fine che non avrà fine» (S. Agostino).
È illusione tutto questo? No, perché è già stato vissuto in maniera esemplare da Mosè, dal suo popolo, e soprattutto da Colui che è “Via, verità e Vita”.
Bene! Allora d’ora innanzi mi alzerò e andrò davanti allo specchio con tanta fiducia (in me stesso, negli altri, in Dio), con speranza (non sono un nomade che va dalla levatrice al becchino), con tutto l’amore possibile perché sono amato e questo è il filo rosso della mia vita terrena… anzi della mia eternità.
Il mio è un cammino senza fine, perciò da ora in avanti mi alzerò e…
comincerò a pedalare…
IN TANDEM CON DIO
(Il mio cammino spirituale)
Dapprima ho visto Dio come un Essere che se ne sta nei cieli: un’energia cosmica grande, potente ma lontana da me.
Poi l’ho visto come un giudice, uno che teneva, sul suo registro personale, il conto delle cose sbagliate che facevo. Riconoscevo che doveva esistere, ma non lo conoscevo affatto.
In seguito, quando iniziai a riconoscere in me un grande desiderio di Cielo, mi sembrò che la vita fosse come una corsa in bicicletta, su un tandem. Notai allora che Dio era un “Tu” che stava dietro di me e che mi aiutava a pedalare. La vita, infatti, è come andare in bicicletta; non cadi finché continui a pedalare.
Poi un giorno sentii la sua voce: parlava proprio a me, conosceva me, voleva solamente il mio benessere. Fu proprio allora che mi suggerì di scambiarci di posto, e la mia vita da allora non è più stata la stessa…
Quando guidavo io, conoscevo la strada. Era piuttosto noiosa, ma prevedibile. Era sempre la distanza più breve fra due punti.
Ma quando cominciò a guidare Lui, conosceva bellissime scorciatoie, attraversava prati verdi e luoghi rocciosi a fortissima velocità; tutto quello che riuscivo a fare era tenermi in sella! Pensavo che l’avrebbe condotta al disastro. Anche se sembrava una pazzia, Lui mi gridava: «Non fermarti! Tranquillo, ci sono qua io!».
Cominciai a preoccuparmi e a chiedergli: «Scusa, ma dove mi stai portando?». Lui si limitava a sorridere e non rispondeva, e io così trovai che cominciavo a fidarmi. Presto dimenticai la mia vita noiosa ed entrai nell’avventura, e quando dicevo “Ho paura”, Lui si sporgeva indietro e mi toccava la mano.
Mi portò da gente con doni di cui avevo bisogno. Mi diedero i loro doni da portare lungo il viaggio. Un viaggio che diventava ogni giorno, sempre più, il “nostro”, vale a dire, di Dio e mio.
E ripartimmo. Mi disse: «Dai via i regali, sono bagagli in più». Così li regalai a persone che incontrammo, e trovai che quando regalavo ero io a ricevere.
Dapprima non mi fidavo tanto di Lui, al comando della mia vita. Pensavo che l’avrebbe condotta al disastro. Ma lui conosceva i segreti del viaggio, sapeva come far inclinare la bicicletta per affrontare strettoie, saltare per superare luoghi rocciosi, lanciarsi in avanti per abbreviare passaggi paurosi.
Ora ho imparato a star zitto e a pedalare nei luoghi più strani, e incomincio pure a godermi il panorama e il soffio di brezza leggera che mi accarezza il volto. Trovo che il mio compagno di viaggio sia delizioso.
E quando sono certo di non farcela più ad andare avanti, grido a Lui; e Lui si limita a sorridere e a dire: «Pedala! Pedala!".