Riflessioni di don Ferri in ritiri
"Vieni al Padre, fonte di Misericordia"
19 settembre 2024 * S. Gennaro vescovo
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SANTA-CECILIA     Riflessione dettata dal rettore del Santuario San Giuseppe in Spicello di San Giorgio di Pesaro, il 31 agosto 2013, al gruppo corale “Laudamus Te”costituito presso il medesimo Santuario, riunito in ritiro spirituale presso il non lontano Santuario di San Pasquale
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Nella riflessione di oggi ci facciamo guidare da Sant’Agostino che, nelle sue omelie, ha più volte svolto il significato e il valore del canto liturgico.
Quella che scegliamo oggi sviluppa il tema di: “Canta e cammina” che, parafrasando, potremmo anche esprimere con: “Cammina cantando”.
Infatti, ci auguriamo che il cammino della nostra vita sia sempre un cammino di gioia, di canto e di giubilo.

Come premessa per la riflessione, non penso che sia superfluo citare due espressioni bibliche attinenti.
San Paolo ai Filippesi: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”.
Il Profeta Sofonia: “Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia Israele, esulta ed acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!”.
Sant’Agostino, per svolgere il tema in parola, prende lo spunto dal salmo 32, che, nei primi versetti, suona così: “Lodate il Signore con la cetra, con l’arpa a dieci corde a lui cantate. Cantate al Signore un canto nuovo! Suonate la cetra con arte!”.
Il testo per esteso lo troviamo nell’Ufficio delle Letture per la festa di Santa Cecilia.
Siamo esortati, dunque, a cantare al Signore un canto nuovo; ma “solo l’uomo nuovo – dice Agostino - conosce il canto nuovo”.
Ci domandiamo: Noi siamo persone nuove o ancora legate a schemi che induriscono il cuore e lo rendono “ammuffito” ed “arteriosclerotico”, e, di conseguenza, piuttosto triste, non capace, quindi, di cantare il canto nuovo?
Il canto è, senza dubbio, segno di gioia. Se poi considerassimo la cosa ancor più attentamente, ci accorgeremmo che è espressione di amore, da cui proviene la gioia.
Solo chi sa amare, coltivando la vita nuova, è capace di cantare il canto nuovo e lo canterà bene.
Qual’é la vita nuova?
La vita nuova è quella che ci ha portato Gesù, perché con lui tutto si rinnova.
Cito alcune di queste novità.
Dal Vecchio Testamento siamo passati al “Nuovo”; dal vecchio sacrificio del sangue di animali, siamo passati a quello del sangue di Gesù, donato e sparso per la “Nuova ed Eterna alleanza”.
Dal comandamento antico: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, siamo passati a quello nuovo: “Vi do’ un comandamento nuovo – dice Gesù - amatevi l’un l’altro come io vi ho amato”.
Agostino così commenta il “Cantate al Signore un canto nuovo”:
“Ecco, tu dici, io canto! Tu canti, certo, lo sento che canti: ma bada che la tua vita non abbia a testimoniare contro la tua voce. Cantate con la voce, cantate con il cuore; cantate con la bocca, cantate con la vostra condotta santa. Cantate al Signore un canto nuovo”.
Poi prosegue, commentando il cammino:
“Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono alcuni che progrediscono sì, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede. Canta e cammina.
Vediamo di fare una verifica.
Per quale motivo noi cantiamo?
Il canto deve nascere dal cuore e da un cuore gioioso. Il cuore è gioioso se è pieno di amore, un amore che rimane limpido solo se è sostenuto da motivi di fede e di speranza.
Questi motivi si riassumono in uno: credere fermamente che Gesù, essendo risorto, tuttora vive ed opera in mezzo a noi. Con lui non c’è nulla da temere. Perciò siamo felici e pertanto cantiamo.
Ma, siccome la vita si prolunga nei giorni, uno dopo l’altro, abbiamo anche bisogno di motivi sempre nuovi per riconfermarci nella fede e nella speranza.
Questi motivi nuovi nascono solo dall’ascolto della parola di Dio, che, pur rimanendo con le stesse espressioni, si applica in maniera sempre nuova nella nostra vita.
Dall’ascolto nasce lo stupore e quanto più la si medita, tanto più aumenta lo stupore. Ad esso non basta più rispondere con la preghiera, ma si sente l’esigenza del canto.
Poi ci accorgiamo che, per esprimere tutta la gioia del cuore, anche il canto non basta più, e allora Agostino suggerisce di cantare “con giubilo”.
Lo spiega con queste parole: “Cantare con arte a Dio consiste nel cantare con giubilo. Il giubilo è quella melodia, con la quale il cuore effonde quanto non gli riesce di esprimere a parole. Cantate a lui con arte, nel giubilo”.
Il gregoriano, per il quale ci stiamo impegnando, si accosta ed esprime, in qualche modo, questo canto di giubilo.
Che funzione, in questo senso, avrebbe anche il salmo responsoriale!
Quali sono gli effetti del canto nuovo, espresso nella liturgia?
Cantare assieme porta a creare coesione e unità fra i partecipanti, aiuta a sentirsi e ad essere “famiglia di Dio riunita in assemblea per lodarlo”.
Il canto di inizio ha proprio questo compito: concorre a creare unità ed a mettere la comunità in stato di festa.
Se molti non si premurano di arrivare in tempo e non cantano, è segno che l’assemblea è disunita anche affettivamente, ci si sente estranei; non si è tutti in piena sintonia con Dio e perciò non gioiosi; se si è presenti, spesso e per molti, è per soddisfare un precetto; e comunque, ritenendolo un fatto privato, non ci si sintonizza con gli altri.
Riuscire a far cantare tutti sarebbe il massimo per creare e alimentare il senso di appartenenza e sentirsi figli dello stesso Dio e, di conseguenza, famiglia fra noi.
È una meta non facilmente raggiungibile, ma è proprio qui che entra l’importanza della “Schola cantorum” . Il gruppo corale è chiamato ad essere l’animatore per le citate finalità.
Ma, come può riuscirvi se esso per primo non si matura e non cresce nella pratica del “canto nuovo?”.
A questo punto diventa importante esaminarci in concreto su alcuni aspetti.
Mi pare doveroso scegliere il nuovo comandamento, come poc’anzi citato: “Vi do’ un comandamento nuovo, amatevi l’un l’altro come io vi ho amato”.
Dice San Tommaso: “Dio non mi ama perché sono buono, però mi rende buono perché mi ama”.
Se questo principio lo applicassimo nel nostro amore verso il prossimo, sarebbe tutto risolto!
L’altro va amato non perché se lo merita, ma per se stesso, proprio come fa Dio. Poi, ci accorgeremmo che, in fondo, non è così cattivo come pensavamo.
Ma, nel contempo, ognuno di noi dovrebbe facilitare agli altri il compito di amarci. È su questo che vogliamo esaminarci.
Ecco una elencazione di queste qualità.
Ridurre e squadrare le nostre angolosità
. È vero che ognuno è fatto come è fatto. Però saremmo ben accetti se, nonostante questo, dessimo minore spazio al nostro “io”.
Avere il senso del proprio limite
. Evitare, quindi, di sopravalutarci. Ma neppure rattristarsi per le proprie incapacità; saper gioire, invece, per i doni ricevuti da Dio – ognuno ne ha - senza invidiare quelli degli altri, a meno che non sia la “santa invidia”.
Credere che il dono dell’altro è anche una propria ricchezza. Siamo un dono vicendevole, se viviamo veramente nella dimensione dell’amore.
Avere il senso degli altri.
Sapendo di far parte di una comunità, questo ci deve far mettere in primo piano i doveri, anziché i diritti.
In ogni impegno dobbiamo essere noi i primi a cominciare, senza aspettare che siano gli altri.
Non ci fa usare le lenti di ingrandimento per i torti ricevuti. Ci fa saggiamente valutare, non quello che sopportiamo dagli altri, ma quello che gli altri devono sopportare per causa nostra.
Avere la forza della mitezza.
Saper dominare la suscettibilità, cioè la facilità ad offenderci, la così detta permalosità. Il dominio di sé non è debolezza, ma fortezza.
Avere la capacità dell’umorismo.
Dettare una battuta, in un ambiente carico di tensione, è atto di carità.
Distinguere però l’umorismo dall’ironia e, peggio, dal sarcasmo. Il sarcasmo mette in inferiorità l’altro. Se l’umorismo è un elemento che costruisce la comunità, il sarcasmo introduce sofferenze e divisioni nella comunità.
A volte, anche il saper scherzare su se stessi, ci rende simpatici agli altri.
Avere la capacità di dimenticare.
La consueta espressione “perdono, ma non dimentico”, certamente non va al fondo del perdono. Attenzione, però, a non confondere il “non dimenticare”, con il “fare memoria”, che è rimuginare negativamente il torto ricevuto.
Il perdono è un atto della volontà, quindi sotto il nostro controllo: è non fare memoria.
La dimenticanza, invece, è un fatto psicologico e quindi più difficile da controllare.
Se il pensiero dell’offesa torna prepotentemente alla mente, è l’occasione buona per offrire al Signore il nostro dolore e, nel contempo, per elevargli la preghiera in favore dell’offensore, come dice Gesù: “Pregate per i vostri persecutori”.
D’altra parte, non possiamo pretendere dall’offensore che, comunque e sempre, chieda perdono in modo esplicito; basta un saluto, un sorriso, un gesto di carità, per far capire che è pentito. A noi deve bastare.
Fare come i direttori d’orchestra.
La diversità degli altri, come detto sopra, è un dono per arricchirci vicendevolmente.
La diversità, quindi, non è opposizione. Ma, se bene accolta, è pere creare armonia.
Evitare, perciò, l’atteggiamento difensivo verso chi non la pensa come noi o non è come vorremmo noi. Se non sappiamo accettare la diversità degli altri, non sapremo neppure accettare le loro buone qualità, perché ci faranno ombra.
Accettare una vita di chiaroscuri.
Analogamente al nero, necessario non da solo ma assieme agli altri colori, per dare bellezza al dipinto. Anche i difetti di una persona hanno la loro funzione.
Pertanto, anche in riferimento a noi stessi, dobbiamo accettarci per quello che siamo.
Avere il senso della misura e della discrezione.
Saper regolare gli atti secondo prudenza ed equilibrio.
Lo zelo si esercita entro certi limiti. Ci sono persone che credono di essere zelanti e invece sono terribilmente fastidiose. Solo lo zelo buono, basato sulla carità vera, costruisce i rapporti. Mentre l’indiscrezione li distrugge.
Lo zelo indiscreto, spesso si manifesta anche nei giudizi, attribuendoci competenze su tutto e su tutti, pretendendo di avere sempre l’ultima parola.
Spesso tale giudizio nasce da un’amarezza interiore; si tratta di persone infelici che scaricano i propri pensieri e turbamenti sugli altri.
Vivere secondo la verità nella carità.
La correzione fraterna è un elemento che costruisce la comunità.
Però, solo quando, spinti dal bene che si vuole al fratello o sorella, in un clima di letizia, al momento giusto e con termini giusti, ispirati sempre dall’amore, lo si aiuta a capire che ha sbagliato in un certo atteggiamento e che può correggere un proprio difetto.
Purtroppo alcuni, insofferenti dei difetti altrui e per falso zelo, vorrebbero far quadrare la vita degli altri a loro piacimento, sono intolleranti, intervengono continuamente, ma ottengono l’effetto contrario.
Questa non è correzione fraterna, ma indiscrezione e a volte squilibrio. Dobbiamo saper accettare nella vita, che non tutto quadri perfettamente.
Il Signore sempre ci accetta così come siamo. Ricordare la parabola della zizzania.
Fare della propria vita una trasparenza.
La sincerità è un elemento importante per i rapporti con gli altri. Se i rapporti si rendono difficili è perché non siamo sufficientemente limpidi e sinceri.
Una cosa, comunque, è la sincerità, altra cosa è la sfacciataggine e il modo come ci si esprime. È vero che sulle labbra deve esserci quello che c’è nel cuore; però sia espresso con delicatezza, con senso di rispetto e con discrezione.
Nella sincerità, inoltre, bisogna guardarsi da due eccessi: il non avere il coraggio di manifestare le proprie idee per mancanza di personalità; il buttare in faccia, in modo sgarbato, la nostra briciola di verità.
La sincerità, in certi momenti, costa perché richiede coraggio e dominio di sé.
Però, se nei nostri rapporti mettessimo più sincerità condita di carità, tante difficoltà di comunione scomparirebbero.
Mettere a fondamento di tutto la pazienza.
Dio ha fatto l’universo con potenza, noi riusciamo a fare qualcosa con la pazienza.
Non è la forza del vigliacco che rifiuta il combattimento.
È, invece, un atteggiamento di forza che viene imposto a se stessi per non reagire al difetto di un fratello o sorella che può dare fastidio.
Se si oppone malignità a malignità si da esca alla violenza. Se, invece, a malignità e violenza opponiamo pazienza, mancando d’umore e di linfa, la violenza muore.
La pazienza è quella capacità di auto dominio per cui, di fronte alle avversità, sappiamo moderare le nostre reazioni, permettendo così che la tensione si allenti.
Comunque, è da ricordare sempre che, se istantaneo è lo strappo prodotto da un comportamento o da una offesa, molto tempo, invece, richiede la ricucitura del rapporto.

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davanti al Padre,

dal quale ogni paternità
nei cieli e sulla terra." (Ef. 3,14-15)

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