Nuovo Tabernacolo e incorniciatura san GiuseppeRiflessione dettata dal rettore alle famiglie riunite in ritiro il 13 luglio 2014 presso il Santuario San Giuseppe in Spicello di San Giorgio di Pesaro
Testo base: Fil 3, 12-14.16-21
Per il documento: clicca qui
Certamente, tutti noi siamo d’accordo con Paolo nel riconoscere che: “Non abbiamo raggiunto la meta, non siamo arrivati alla perfezione”.
Questo, se è vero per ogni cristiano, a maggiore titolo lo è per noi che siamo nell’Istituto: anche se vi apparteniamo da diversi anni, anche se “perpetui”.
Non ci accada, come purtroppo accade ad alcuni, che una volta giunti alla professione perpetua, credono di aver raggiunto la meta: l’Istituto non contiene una meta in se stesso; è solo uno strumento che, con la propria grazia di stato, aiuta ad essere più snelli, meno affaticati e maggiormente solleciti nel cammino verso la meta stessa.
Sappiamo che la meta non è in questo mondo, ma sta nel raggiungere quello che descrive Paolo: “Il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù”.
Il brutto è che, anche senza rendercene pienamente conto, spesso tiriamo il freno e rallentiamo il cammino, per non dire che addirittura ci fermiamo.
Il sintomo lo si riscontra quando, senza valido motivo, non utilizziamo quei momenti e quegli incontri che ci vengono proposti e che lo Statuto ha codificato nei suoi articoli. Questi momenti ci aiutano a tenere il piede sull’acceleratore, proprio allo scopo di camminare più veloci.
La meditazione di oggi dovrebbe servire per aiutarci a capire quale metodo seguire per camminare abbastanza speditamente, e a capire come riuscire a raggiungere la meta.
Dunque, è vero: non siamo giunti alla meta; eppure, non è questo che conta.
L’importante, invece, è mettercela tutta, e non semplicemente camminando ma addirittura “correndo”; ovviamente può venire il fiatone spirituale che, a sua volta, ci spinge a prendere qualche tipo di sosta che, però, non consiste nel fermarci.
Quale tipo di sosta?
Illuminati dallo Spirito sta a noi trovare quel qualcosa che, in qualche modo, ci fa staccare la spina, ovviamente non per fermarci ma per andare avanti in forza di una riserva che ci siamo procurata.
Analogamente a quanto soleva dire Don Alberione in riferimento al riposo quotidiano e a quello delle ferie. Diceva: “Il riposo ci vuole, ma guai a stare in ozio; il riposo si prende cambiando occupazione”.
In riferimento alla meta, Paolo da parte sua dice: “Dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta”.
Notiamo che Paolo usa la parola “correre”.
Essa ci porta a rapportarci e a riflettere sul linguaggio sportivo ed agonistico, che qui egli non sviluppa. Però, lo esprime molto bene nella prima ai Corinzi, con queste parole: “Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio?”.
Dove sta la differenza tra la corsa che si gareggia nello stadio e quella dei figli di Dio e discepoli di Cristo?
Innanzitutto, mettiamo in chiaro una verità.
La nostra corsa verso il Padre, sarebbe impossibile, se il Padre non avesse mandato a noi il Figlio suo.
Gesù, invitato dal Padre, ha risposto: “Ecco io vengo, per fare la tua volontà”.
Con tale risposta, pienamente generosa e senza esitazione, è come se avesse fatto una corsa verso di noi. L’ha fatta proprio per redimerci e salvarci o, come dice Paolo, per conquistarci: “Anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù”.
Per cui, il nostro correre in tanto vale in quanto possiamo aggrapparci a Gesù che è la “Via” tra noi e il Padre. Con ciò entriamo nello specifico della nostra spiritualità.
Infatti, Gesù una volta compiuta la sua missione sulla terra, fa ritorno al Padre: è come se facesse un cammino a ritroso. Prima era disceso, ora sale e ritorna. Sta a noi agganciarci a lui, imitare lui, lasciarci trascinare da lui.
Allora dove sta la differenza tra la nostra corsa e quella dei corridori allo stadio?
La differenza è quanto mai consolante: nella corsa con Cristo, tutti possiamo essere premiati, a differenza di quelli allo stadio.
Infatti, Cristo non ha corso verso di noi per salvarne uno o pochi, ma per salvare tutti. Per fare questo è stato mosso dalla infinita misericordia del Padre.
Pertanto, a questo punto della riflessione, dovremmo fermarci ed elevare un inno di lode per la grande misericordia che Dio ha avuto per ciascuno di noi.
Quanta ne ha avuta! E come ce la concede continuamente!
A proposito di questo, Paolo ricorda spesso il fatto capitatogli lungo la via di Damasco: riconosce che è stato un atto della infinita misericordia di Dio.
Anche Alberione, nel mese di esercizi spirituali del 1960 ad Ariccia, dice: “La mano di Dio sopra di me, dal 1900 al 1960. La volontà del Signore si è compiuta… nonostante la mia miseria…”.
Anche noi dovremmo riconoscerlo. Quanta miseria nel nostro passato, più o meno lontano! Eppure il Signore ci ha usato tanta misericordia e ci ha dato tanta possibilità di ripresa, proprio chiamandoci all’Istituto.
Ora ci domandiamo: Quale modalità in questa corsa?
Continua Paolo nella citata ai Corinzi: “Sapete pure che tutti gli atleti, durante i loro allenamenti, si sottopongono a una rigida disciplina; essi l’accolgono per avere in premio una corona che presto appassirà; noi invece lo facciamo per avere una corona che durerà per sempre”.
Nel cammino cristiano la “rigida disciplina” consiste nella “mortificazione” (far morire, cioè togliere tutto quello che impedisce o rallenta il cammino); consiste nello “spirito di sacrificio” (rendere sacro, cioè fare tutto con amore e per amore).
In altre parole, è un cammino di croce. Si tratta di seguire Cristo che, oltre ad avere avuto mille difficoltà e incomprensioni nella vita, alla fine è stato crocifisso, come si esprime Paolo in I Corinzi: “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso”.
Abbiamo detto pocanzi che Cristo ha compiuto la sua missione di salvezza richiestagli dal Padre, come correndo incontro a noi. Possiamo definire tale corsa: la passione di Dio per l’uomo.
Anche noi, per raggiungere la meta, dovremmo avere tanta passione verso Dio, accettando la missione che ci affida; e altrettanta passione nel compierla per degli altri.
Il concetto è bene espresso da Papa Francesco della “Evangelii gaudium”: “La missione non è una parte della mia vita… E’ qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi.
Io sono una missione su questa terra, ed è per questo che mi trovo in questo mondo”.
Per capire il concetto inteso dal Papa, rapportiamoci a Cristo. Egli è mandato a compiere la missione per noi, quella di salvarci. Facendo questo egli diventa la nostra salvezza.
Applichiamo a noi. Compiere la missione di sposi e di genitori, fare apostolato e dedicarsi agli altri, non è semplicemente fare un’opera buona, da compiersi se e quando ce ne va.
No! La nostra vita intera: è una missione! Quello che ne segue, non è tanto un “fare” (questo avviene inevitabilmente di conseguenza), ma è un “essere”.
Per analogia, se il recipiente continua a ricevere acqua, quando è pieno, essa trabocca; quando un cristiano è pieno di Dio, per una forza centrifuga, non può non traboccare di amore e irradiarlo sugli altri, anche se non fa grandi cose.
L’Alberione pregava: “Che la mia presenza ovunque porti grazia e consolazione”.
Potessimo assomigliare a don Alberione ed avere la grazia da lui richiesta!
Potessimo assomigliare anche a Paolo che dice: “Fratelli, fatevi miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi”.
Potessimo anche noi ripetere, alla fine della vita, come Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta la corona di giustizia che il Signore mi consegnerà in quel giorno”.
Riprendiamo il titolo: “Mi protendo in avanti”.
La natura di tale protendersi è ben delineata dall’Alberione.
Analogamente al testo di Paolo appena letto, negli anni 60, durante il citato corso di esercizi spirituali, lo descrive con queste parole: “La volontà del Signore si è compiuta, nonostante la miseria di chi doveva esserne lo strumento indegno ed inetto.
Dal Tabernacolo tutto: la luce, la grazia, i richiami, la forza, le vocazioni, in partenza e nel cammino. C’è qualcosa nel ‘mi protendo in avanti’…”.
Ci domandiamo: cosa c’è in questo protendersi in avanti?
Il “mi protendo in avanti” di Alberione è incastonato in alcuni passaggi molto importanti, da accogliere; essi devono qualificare la vita di ognuno e delle famiglie, tanto più se membri dell’Istituto.
Vediamoli.
Vi è l’azione prioritaria di Dio; è lui che chiama: “La volontà del Signore si è compiuta”.
Vi è la risposta del chiamato: sente di essere scelto nonostante la propria miseria: “Strumento indegno ed inetto”.
È chiarita la fonte da cui tutto proviene: “Dal Tabernacolo tutto”.
Si conosce la motivazione unica della risposta: “Gloria a Dio e pace agli uomini”.
Dicevamo all’inizio del rischio che possiamo correre: quello di fermarci o rallentare la corsa; oppure quello di procedere molto superficialmente.
Non c’è da meravigliarsi. Purtroppo, in qualsiasi stato di vita a cui siamo chiamati, rimaniamo peccatori; abbiamo sempre bisogno della misericordia di Dio.
Essa è sempre attiva ma perché possa operare, è necessario da parte nostra riprendere il cammino.
Interceda don Alberione in questo anno di grazia, in questo primo centenario di fondazione della Famiglia Paolina.