
(Testo base: Lc 2,39-40.51-52)
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Lo svolgimento di questo tema indicato per il mese di dicembre, in cui la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia, si addice proprio.
La famiglia, lo abbiamo sentito ripetere tante volte, è la più grande opera uscita dalla mano di Dio. Essa serve (dovrebbe servire) a farci capire, seppure molto pallidamente, come è fatta quella di Dio, vissuta nell’ambito trinitario.
Ai nostri tempi c’è una cosa consolante. Finalmente, la pastorale della Chiesa sta orientandosi sempre più verso la considerazione della realtà familiare, sia come oggetto, sia come soggetto di evangelizzazione.
Il Beato Alberione, ne è stato il profeta e l’anticipatore. Sulla famiglia, sin dai primi tempi, aveva scritto: “Dio, volendo restaurare ogni cosa in Gesù Cristo, dispose che Egli iniziasse la sua opera presentando a tutte le famiglie un perfetto modello nella Famiglia di Nazareth.
Nella Santa Famiglia, infatti, i padri, le madri, i figli trovano divine lezioni di pazienza, di castità, di amore filiale, di laboriosità. Là Gesù visse, lavorò, pregò per tanti anni. Così la restaurazione cominciò dalla famiglia”.
L’anelito dell’Alberione era proprio la santità del matrimonio.
Sin dall’inizio della sua opera aveva pensato ad un tipo consacrazione per coniugi, per meglio raggiungere la santità, a quello che oggi è l’Istituto Santa Famiglia, ma i tempi non erano ancora maturi. Pe4rtanto, Il suo pensiero ha avuto una lunga gestazione: solo alla fine della sua vita terrena, si realizzerà.
Giuridicamente l’approvazione è avvenuta nel 1960.
La nascita storica, però, è avvenuta il 25 novembre 1971, al capezzale di don Alberione agonizzante. Nel pomeriggio faremo memoria di tale avvenimento.
Nel frattempo, non volendosi arrendere, ha fondato la rivista “Famiglia cristiana”, proprio per elevare il tono spirituale delle famiglie.
Il suo pensiero lo aveva scritto nella prefazione di un libro, in cui tra l’altro dice: “La famiglia è il primo campo di santificazione. Vivrà bene in società chi sa edificare la casa e profumarla con le sue virtù. La casa di Nazareth era come il domicilio delle virtù”.
Poi passa a descrivere le virtù fondamentali che si vivevano nella casa di Nazaret. Cito alcune sue espressioni, limitate alla figura della sposa e madre Maria:
“Vita di preghiera. Nella casetta di Nazareth si onorava Dio. Dal cuore di Maria, come da un turibolo ardente, si elevava verso Dio un continuato incenso di preghiera.
Vita di lavoro. Quello di una buona madre di famiglia di quel tempo, nella sua condizione, in Nazareth: filare, preparare il cibo quotidiano, procurare l’ordine e la pulizia.
Vita di crescita. Il Figlio cresceva in sapienza, età e grazia, presso Dio e presso gli uomini… In ogni cosa obbediva e compiaceva la madre; la Madre in ogni cosa indovinava i gusti del Figlio; il Figlio e la Madre insieme cercavano in ogni istante la gloria di Dio e la salvezza del mondo”.
Ora prendiamo in considerazione i tre ambiti.
Vita di preghiera. La santità della famiglia fiorisce nel clima di preghiera. Anche la preghiera è una attività ed è una fatica. L’Alberione affermava che: “è l’attività al massimo grado”.
Ora guardiamo a noi e ci poniamo una domanda.
In famiglia si vive la preghiera? Quando non è possibile tutti insieme, la si vive almeno a livello personale ed anche, molto meglio, a livello di coppia?
Sempre per dirla con Alberione, la preghiera: “E’ come il cibo che mangiamo”.
Di conseguenza, come fissiamo il tempo per mangiare, anche più volte al giorno, ed altre volte, in occasioni di ricorrenze, con un menu speciale, allo stesso modo, con orari e giorni prefissati, va stabilito il tempo della preghiera.
Inoltre don Alberione aggiunge: “E’ come l’aria che respiriamo”.
Ora, non si respira qualche momento, ma sempre, anche quando dormiamo, 24 ore su 24.
Tutto questo fa eco alla parola di Gesù: “E’ necessario pregare sempre!”.
A questo punto, però, deve essere chiara una cosa: non dobbiamo confondere la preghiera con le pratiche di pietà.
L’immagine del menu e degli orari del cibo, si riferiscono alle pratiche di pietà, cioè agli strumenti che alimentano la preghiera.
L’immagine dell’aria, si riferisce alla preghiera, per se stessa.
Invece noi, in genere, quando parliamo di preghiera, ci riferiamo primieramente alle pratiche di pietà.
Allora, per meglio capire, usiamo un’altra immagine, quella dell’autovettura e del carburante, oppure, meglio ancora, del fuoco e della legna.
Il fuoco è necessario per scaldare, per cucinare, per purificare. Guai se mancasse il fuoco, principio di calore, luce e forza. Però, potrebbe correre un rischio: quello di spegnersi. Ciò avverrebbe se mancasse la legna e non la aggiungessimo a tempo opportuno.
La legna, allora, è importante. Però, da se stessa, varrebbe relativamente poco, se mancasse il fuoco.
Trasferiamo a noi.
Il fuoco è immagine della preghiera. La preghiera è quella relazione la quale mi tiene legati a Dio, nella sua grazia e, nel contempo, aperti ai fratelli: è qualcosa di vivo, di palpitante; è il fuoco dell’amore. Guai se si spegnesse!
La legna è l’immagine delle pratiche di pietà. Le pratiche di pietà – come detto prima - sono quegli strumenti, che noi di norma chiamiamo “le preghiere”, i quali ci aiutano a mantenere vivo il legame con l’amore di Dio e ci ottengono la forza per amare i fratelli.
Per cui possiamo ben dire che ogni contatto con Dio è preghiera, ma non ogni pratica di pietà è preghiera e vero contatto con Dio.
Quali delle due è la più importante?
Sono interdipendenti: l’una ha bisogno dell’altra.
Come si fa a vivere in preghiera se mancano le pratiche di pietà?
Che valore hanno le pratiche di pietà se non vengono compiute nello spirito, se le consideriamo cose che si fanno perché si devono fare; ma se non alimentano lo spirito?
A volte qualcuno afferma di pregare poco. Ovviamente, intende riferirsi alle pratiche di pietà. Attenzione, lo ripeto, non si tratta di quantità, ma di entrare in uno spirito per alimentare la preghiera.
Allora bisogna dire che, come il cibo si assume per orario e per menù secondo le esigenze della persona; per cui c’è chi ha bisogno di mangiare di più, e c’è chi è sufficiente meno cibo; l’importante è che la persona si alimenti tanto quanto gli basta per affrontare la vita, la giornata e il lavoro.
Altrettanto è per le pratiche di pietà. Sono da distribuirsi, secondo le esigenze di ognuno, in alcuni momenti della giornata, nella settimana, nei mesi, nell’anno.
Il Signore dice che, quando preghiamo – cioè quando compiamo le pratiche di pietà che ci aiutano a pregare - dobbiamo entrare nella camera e chiudere la porta.
Se la "camera" è il luogo messo a parte da Cristo per l’opera della preghiera interiore, ne consegue che, per tutto il tempo che vi trascorriamo, dobbiamo necessariamente perseverare nell’opera della preghiera; questo significa che dobbiamo sempre restare in contatto spirituale con Dio.
Dio può concedere a qualcuno l’opportunità di restare a lungo nella propria camera, come è il caso del monaco, che è giustamente ritenuto un cristiano
che è entrato nella camera e che ha chiuso definitivamente la porta dietro di sé: questi non vuole avere più alcun rapporto con la mondanità e con le sue vane preoccupazioni.
A un altro può darsi che Dio conceda la possibilità di restare nella propria camera solo alcune ore al giorno.
Ma alla maggior parte della gente non è possibile restarvi se non per un’ora al giorno, e alle volte addirittura per un tempo ancora più breve. In ogni caso questa differenza di tempo disponibile, per dimorare e pregare nella propria camera, è compensata in altri modi dallo Spirito Santo, quando uno è fedele e sincero nel proprio cammino spirituale.
Infatti, nella misura in cui noi aneliamo veramente alla preghiera, lo Spirito ci concede, anche in poco tempo, delle grosse opportunità di rallegrarci e di
sentirci ricolmi della presenza di Dio.
Non dobbiamo quindi rattristarci per la scarsità del tempo disponibile per appartarci nella camera; dobbiamo piuttosto assicurarci di essere pronti e pieni di desiderio di comunicare con Dio: allora ci accorgeremo che i minuti possono essere come giorni e che veramente la giornata è vissuta in continua preghiera.
Però, in genere e comunque, il lamento per la scarsità del tempo disponibile per la preghiera è solo una falsa scusa, serve solo per giustificare l’“io” nella sua negligenza, trascuratezza e indifferenza nello stare di fronte a Dio.
Comunque, non è facile questa distribuzione.
Due, soprattutto, sono gli ostacoli: il tempo che mancherebbe sempre; la volontà che non è spinta ad impegnarsi, perché non trova un riscontro immediato e tangibile: sembrerebbe una perdita di tempo.
Come regolarsi in proposito?
Per il tempo. Vi è una espressione cara al Beato Paolo VI. Essa dice: “Se il tempo non c’è, dobbiamo crearlo”. Come, analogamente, ci si organizza per le tante esigenze di famiglia, e si trova tempo per tante cose di ordine temporale, di cui si riscontra la necessità e l’urgenza.
Per la volontà. La omissione viene giustificata da diversi motivi, ma vale l’unico principio: “Se credi effettivamente alla necessità della preghiera e vuoi riuscire a pregare, imparando a pregare, prega”, secondo il detto: “L’appetito vien mangiando”.
Proprio come si fa per insegnare al bambino a camminare. Non servono le lezioni, ma semplicemente stendendo le braccia per accoglierlo.
Quando Gesù parla della preghiera, ad un certo punto, dice: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro ”.
È il potere della preghiera comunitaria!
Quel “due” sembra proprio riferirsi alla coppia di sposi; quel “tre” sembra riferirsi anche gli altri componenti della famiglia.
Come è importante - dicevamo prima – pregare insieme! A condizione, ovviamente, che vi sia il “d’accordo”, cioè la comunione vera tra tali persone, a cominciare tra marito e moglie.
Vita di lavoro. Don Alberione non lo considera tanto come impegno di attività, pur necessaria, ma soprattutto come “laboriosità”.
La laboriosità non cambia l’impegno per l’attività che svolgiamo, ma consiste nelle motivazioni fondamentali che animano il lavoro. Non solo il profitto o lo stipendio; ma anche e innanzitutto: la gloria di Dio e la pace degli uomini.
In questo senso, ogni lavoro diventa anche preghiera e apostolato.
In fondo, anche Dio, creando l’universo e l’uomo, ha lavorato con questo spirito, tanto che la Genesi dice: “Il settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere”.
Anche Gesù ha lavorato, prima manualmente nella casa di Nazaret, e poi nel ministero durante la vita pubblica.
In ogni lavoro, anche se remunerato, è necessario che lo si faccia con spirito di gratuità, cioè “per la gloria di Dio e la pace degli uomini”.
Vita di crescita. Gesù cresceva “in età, sapienza e grazia”.
In età. Non si intende quella cronologica: vuoi o non vuoi, gli anni crescono per tutti.
Qui si intende quella interiore. Cioè, nella vita di santità, in una conversione continua, in un impegno e per un cammino di perfezione costante, nel ricominciare sempre daccapo.
In sapienza. Non si intende tanto la cultura, quanto il gustare le cose di Dio. Ciò avviene ascoltando la sua parola, riflettendo silenziosamente su quello che dice, vivendo, di conseguenza, in intimità con lui e, ricevendo il suo Spirito di amore con tutti i suoi doni, a cominciare dal dono della Sapienza stessa.
In grazia. Non tanto nel togliere continuamente il peccato, attraverso il pentimento ed il sacramento della Riconciliazione.
Soprattutto, significa crescere nella convinzione che Dio ci ama di amore infinito e gratuito. In concreto, crescere nella piena fiducia che il Signore ci sta conducendo, e che nulla capita che non sia per il nostro bene.
In tale senso anche il sacramento della Riconciliazione acquista la sua piena valenza. Non è solo togliere il peccato, ma è accogliere l’amore misericordioso di Dio che, nel contempo, diventa antidoto, cioè dà la forza per affrontare le prove della vita e per vincere le tentazioni, uscendone indenni.