Testi liturgici: 2 Sam 12,7-10.13; Sl 31; Gal 2,16.19-21; Lc 7,36 – 8,3
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E’ una di quelle domeniche in cui maggiormente è evidenziato l’attributo fondamentale di Dio, quello di essere “Padre misericordioso”. Egli non punta mai il dito sul peccatore, ma lo accoglie sempre con amore, pur riprovando il suo peccato.
Oggi sono a noi presentati tre casi: quello di Davide, colpevole di omicidio per passione; quello di una pubblica peccatrice, ma che ha un cuore aperto; quello di un fariseo, ma che ha un cuore gretto e che, pertanto, si sente con la coscienza a posto.
Nel primo caso è il profeta Natan che obbliga Davide a rendersi conto dei gravi peccati. Negli altri due casi è Gesù che, servendosi del comportamento della donna, vuol far capire al fariseo quello di Dio nel modo di amare. Amare significa perdonare e perdonare significa amare. Nel momento in cui ci si riconosce peccatori, Dio perdona sempre.
Dove sta la differenza tra questi tre personaggi?
Davide aveva un suo posto di prestigio, era il re della nazione, credeva di non dover rendere conto a nessuno delle sue azioni. Si era addossato più peccati, quello di essere schiavo delle passioni e di essere un assassino usurpatore. Però, chiamato in causa a riflettere, se ne rende conto e, senza troppi giri di parole, lo riconosce e se ne pente.
Applicato a noi, cosa ci dice?
Una delle cose che non sappiamo più fare è quella di prendere su di noi le nostre responsabilità. La colpa dei nostri errori è sempre degli altri: di chi non ci capisce, di chi non ci apprezza, di chi non ci sa valorizzare.
Non ci rendiamo conto, così, che il problema fondamentale non sono gli altri, ma siamo noi stessi. Solo quando capiremo che siamo noi i primi a dover cambiare e di aver bisogno di conversione, allora il nostro cammino risulterà sincero e autentico.
Andiamo al secondo personaggio.
La donna è una peccatrice, però ha il cuore aperto; chiamata in causa, si riconosce per quella che è, sceglie di compiere verso Gesù quei servizi di amore e di accoglienza che il fariseo non ha compiuto.
Cosa dice a noi, a cosa ci invita?
Una volta che abbiamo esperimentato l’amore e il perdono di Dio, dovremmo essere capaci di esprimerlo altrettanto al prossimo. Cosa questa che spesso, purtroppo, non si ritrova neppure tra i credenti di lunga data e tra gli assidui frequentatori delle nostre chiese!
Ed ecco il terzo personaggio.
Il fariseo si crede di essere nel giusto, non si sente chiamato in causa, non accoglie la proposta di riflessione, rimane col suo peccato.
Cosa dice a noi?
Ci dice di riflettere su quanto detto nella seconda lettura: “L’uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo”.
Nessuno di noi è bravo per il solo fatto che osserva i comandamenti e compie le opere buone. E’ bravo perché crede in Gesù Cristo, o, meglio, perché ha fiducia in Lui, ascolta le sue parole e, di conseguenza, le mette in pratica osservando i comandamenti.
In altre parole: se si osserva la legge è perché si crede in Gesù che ci esorta a farlo per il vero nostro bene, accettando la sua salvezza. Pertanto la salvezza è un suo dono, prima che nostro merito.
E’ facile cadere in questo equivoco.
E’ il peccato del fariseo e dei farisei di ogni tempo.
Sac. Cesare Ferri, Rettore Santuario San Giuseppe in Spicello