Omelia delle domeniche e feste Anno C
"Vieni al Padre, fonte di Misericordia"
18 ottobre 2025 * S. Luca evangelista
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30 Domenica C Fariseo e pubblicanoTesti liturgici: Sir 35,15-17.20-22; Sl 23; 2Tim 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

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Incontriamo due tipi di uomini, il fariseo e il pubblicano, che manifestano il loro rapporto con Dio in maniera diversa, per cui è anche diversa la loro preghiera.

Noi a chi dei due assomigliamo?

Ambedue si dicono religiosi, ma rappresentano due mondi religiosi tra loro antitetici. Il primo è quello del fariseo. Per lui, l’appartenenza religiosa genera una considerazione di sé molto pronunciata e quanto mai presuntuosa.

Il secondo è quello del pubblicano. In lui risulta molto chiaro che il rapporto con Dio non prevede negoziazioni.

Il primo trova nella religione un motivo di vanto e si serve di Dio per incensare se stesso; il secondo si rivolge a Dio per trovare il motivo di liberarsi da se stesso.

La presunzione, cioè la convinzione di essere giusti, ha necessariamente un prezzo: il disprezzo degli altri. Ed infatti, il fariseo disprezza il pubblicano: “Non sono come gli altri uomini e neppure come questo pubblicano”.

Di presuntuosi è pieno il mondo.

Presunzione e disprezzo derivano per alcuni dall’appartenenza ad un ceto sociale; per alcuni dal fatto di avere studiato e di avere titoli di cultura; per altri dall’intelligenza e dalla furbizia; per altri ancora dal fatto di avere in mano il potere o di distinguersi per la ricchezza e il denaro.

Il fariseo comincia la preghiera con una negazione: ci tiene a dire che non è come gli altri. Si identifica con le sue opere buone, che ha sempre praticato, tanto da non sapere più nemmeno chi egli sia nella realtà, quale sia la sua identità.

Invece, il pubblicano la conosce molto bene: non ha nulla di che vantarsi, è un povero peccatore, per cui l’unica preghiera che nasce dal suo cuore è una richiesta di perdono e di misericordia.

Finché pure noi continueremo a identificarci con le nostre presunte opere buone, difficilmente sapremo metterci dinanzi a Dio con la sincerità del cuore, e quindi difficilmente la nostra preghiera sarà autentica.

Soltanto quando ammetteremo, almeno davanti a Dio, di essere peccatori bisognosi della sua misericordia, scopriremo cosa significa davvero porsi davanti a lui in sincerità di cuore. Solo allora la pace entrerà nella nostra anima e nella nostra vita.

Comunque, non dobbiamo cadere in un inganno dopo aver ascoltato le parole della prima lettura.

Sembrerebbe, infatti, che solo la preghiera del povero ha valore davanti a Dio. Cosa che sembrerebbe confermata dal salmo responsoriale, in cui abbiamo ripetuto: “Il povero grida e il Signore lo ascolta”.

Questo è vero, ma è necessario capire chi è il vero povero, perché su questo punto potremmo avere idee distorte. Non si tratta di una povertà economica e neppure di una povertà morale.

Nella Bibbia il povero è colui che si fida di Dio a tal punto da riporre in lui ogni desiderio e ogni aspirazione del proprio cuore.

Questo, allora, cambia molto la prospettiva: perché la nostra preghiera sia ascoltata da Dio, non è detto che si debba essere poveri economicamente, ma spiritualmente.

Del resto, come si può pensare di elevare una preghiera pura dinanzi a lui, se siamo superbi e pieni di noi stessi?

Rischieremmo di fare la stessa preghiera del fariseo: ricco di opere, ma sterile perché egoista.

Per quanto buoni e santi, se ci confrontiamo con Dio e non con gli altri, siamo sempre poveri peccatori.

                         Sac. Cesare Ferri, Rettore Santuario San Giuseppe in Spicello

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"... io piego le ginocchia
davanti al Padre,

dal quale ogni paternità
nei cieli e sulla terra." (Ef. 3,14-15)

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