Omelia delle domeniche e feste Anno C
"Vieni al Padre, fonte di Misericordia"
21 ottobre 2025 * S. Orsola martire
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18 Domenica C Il ricco stoltoTesti liturgici: Qo 1,2;2,21-23; Sl 89; Col 3,1.5.9-11; Lc 12,13-21
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Viene subito da pensare alla crisi economica che stiamo vivendo e alle varie ingiustizie sociali che, a loro volta, generano da una parte i sempre più ricchi e dall’altra i sempre più poveri. Questo quadro è ben conosciuto da tutti, senza dire che anche alcuni di noi ci vivono dentro e ne soffrono.
La parola di Gesù parla di ricchezza e di beni ed allude, indirettamente, alla povertà.
Ma il suo intervento non è sul piano politico e sociale; e neppure vuol esaltare la povertà, intesa come virtù morale o, peggio, come situazione economica di miseria.
La povertà, proprio perché ne parla Gesù, è il “vangelo”, è la buona notizia che, se lo vogliamo, irrompe nella nostra vita per ricondurla alla sua pienezza e felicità. Non per nulla è oggetto della prima beatitudine, cosa che, come per tutto il vangelo, non è richiesta una diretta privazione, ma viene offerto un “di più”, da scegliere liberamente. La conseguenza di questo è che diventiamo capaci di fare rinunce, lietamente.
Vuol insegnarci che la povertà è la condizione fondamentale delle fede e, quindi, della salvezza.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che non dobbiamo farci prendere dalla cupidigia: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia”.
Le parole di Gesù, come detto, non sono sul piano dell’equità e della giustizia sociale. Tanto è vero che rifiuta di fare il giudice per dividere l’eredità fra i due fratelli.
Gesù, invece, intende richiamare tutti ad un senso della vita che nessuna legge politica, relativa alla giustizia sociale ed in riferimento ai migliori contratti di lavoro, può dare pienamente.
Mira, invece, a porre una domanda: da cosa dipende la vita?
Pertanto, la parabola del ricco stolto, diventa molto eloquente: “La vita non dipende da quello che uno possiede”. Per cui la conclusione: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”.
Una forma di cupidigia può introdursi non solo nelle cose che si hanno o si vogliono avere, ma anche in quello che facciamo o che vorremmo fare.
È quello ascoltato nella prima lettura. A prima vista sembra un diffuso pessimismo: tutto è vanità!
In realtà, dietro le parole pronunciate, vi è nascosta una grande saggezza. Infatti, spesso noi pensiamo che le cose che facciamo, siano pure le più nobili, debbano restare per sempre e parlare di noi, anche quando non ci saremo più.
Invece dobbiamo ammettere fermamente che tutte le attività umane sono segnate dalla caducità, e che il tempo inesorabilmente toglierà, a quelli che verranno dopo di noi, il ricordo di ciò che abbiamo fatto.
Pensare a ciò è molto utile, perché ci aiuta a ridimensionare la nostra vita e a dare il giusto peso alle nostre azioni. Non siamo per rimanere in eterno su questo mondo: ricordarselo ci aiuta a non insuperbirci.
È quello dettoci da San Paolo: “Fate morire le cose che appartengono alla terra”. E continua enumerandone qualcuna: “Impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria”.
Tutte queste cose sono apportatrici di morte.
Il brutto è che noi siamo così abituati a viverci dentro, da non renderci più conto che, liberandoci di esse, saremmo molto più liberi e felici.
È quello che, nel nome del Signore, ci auguriamo a vicenda.
Sac. Cesare Ferri, Rettore Santuario San Giuseppe in Spicello

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davanti al Padre,

dal quale ogni paternità
nei cieli e sulla terra." (Ef. 3,14-15)

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